La notte della neve

Amo spiare la notte impossessarsi di Roma come un master che immobilizza la preda per infliggerle ore di torture e godimento. Che poi sono la stessa cosa.

Quando il buio cade sulla vecchia matrona la gente perbene cerca riparo nelle proprie tane mentre dai tombini come i ratti usciamo noi.

Quanta inquietudine sotto uno stesso cielo. Quanta inquietudine sulle sponde del Tevere che incurante scorre senza sosta assieme alla vodka e alle illusioni che ogni minuto si frantumano come calici da vino di Ikea.

La notte e Roma sono sadiche e imprevedibili come i pacchi di un programma per pensionati e casalinghe in cui chi se ne va sconfitto ha come premio di consolazione anche sensi di colpa a pacchi. Perché la fortuna, così come la colpa, non avviene mai a caso. In quelle scatole strette in mano da ignoti d’ogni dove puoi trovarci di tutto mentre saltelli tra il bancone ed il bagno stringendo tra le dita l’ultima sigaretta ed un bigliettino col tuo numero da ficcare nelle tasche del buttafuori così gentile da non averti ancora sbattuto fuori a calci.

Ma è quando tutti i segni divini e le congiunzioni metereologiche e astrali suggeriscono prudenza, di restare in casa chiuse a molteplici mandate, che bisogna cogliere la sfida e lanciarsi nella brughiera in cerca di un Heathcliff o semplicemente di tempesta.

Una notte, tra i tanti sconosciuti che attraversano la capitale e la mia vita senza lasciare traccia, arrivò la neve. Visitatrice esotica e annunciata ma non per questo meno prodigiosa o sorprendente.

Assieme alla neve arrivò lui, l’uomo della neve. Un forestiero dai lunghi capelli portato dalla bufera. Un brivido caldo levatosi dai sanpietrini ibernati.

Uno sguardo ed ero sua, sciolta come un ghiacciolo che annega in una Jacuzzi. D’un tratto tutti gli Harmony rubati dai cassetti di mia madre erano lì, materializzati in carne, ossa e vodka tonic, nel cuore di una Trastevere polare. Nel cuore di una Trastevere bollente.

Ecco perché amo le intemperie, la pioggia, il vento, i tombini intasati, la grandine, perché fanno pulizia di tutta la gente inutile – imbottitura sociale, figuranti – lasciando spazio a noi: i peggio. E facendo posto ai marinai di passaggio. Quelli che ti seducono e poi si dissolvono come neve a Roma.

Nulla è eterno nella città eterna. Nemmeno un respiro che sembra infinito ed invece è solo un fermo immagine di un regista annoiato che fa prove tecniche coi tuoi polmoni.

Del resto cosa ci si può aspettare da un luogo in cui la storia è già stata scritta tutta? Un capitolo nuovo? Non certo una morale. Perché chi è in cerca di morale non scende certo a Termini.

E col fiato ancora sospeso, inebriata di desiderio e Beluga, mi ritrovo ancora una volta sola a proseguire il mio cammino verso l’ignoto per i vicoli ghiacciati, mentre Ponte Sisto mi guarda incredulo ed un magrebino insegue la mia ombra giurando amore eterno.

Eterno come una promessa nella città più bugiarda del pianeta.

Carla Monteforte

Ultima notte al B-Side: il lato B della città (pubblicato su www.iacchite.com)

La mia prima volta al B-Side non me la ricordo nemmeno. Non so se per colpa del rum e cola o perché è come se in quel girone infernale, apertosi come un cratere ardente nel cuore di Rende, io c’avessi beatamente sempre sguazzato. Sono certa però che i miei primi pellegrinaggi nella wild side a nord di Cosenza avvenissero di mercoledì: c’era il Partyzan e nel bel mezzo della settimana, mentre la gente perbene si batteva il petto in pigiama alla tv, io montavo sui tacchi per scendere tre metri sotto terra ed immergermi nella nebbia e nel rock incollata al mio allora inseparabile amico “Bestio” che stava a stento in equilibrio sui suoi piedi ma, saldamente agganciato al mio braccio, soffiava come una gatta partorita su tutti i “cani malati” che raccattavo.

Li chiamava così, lui, i tipi che mi ronzavano intorno. E di accalappiacani, purtroppo (o per fortuna), nei 13 anni di vita del club ne sono passanti così di rado che di randagi io e le amiche mie ce ne siamo adottati infiniti, tra una spintonata e una dance-hall, al civico 98 di via Fratelli Bandiera di Rende.

Anzi tutte le liaisons della mia cerchia più stretta – e di metà città e hinterland – dell’ultimo decennio hanno avuto origine proprio in quella pista che sapeva d’underground e sigarette e che pareva così angusta che resta tuttora un mistero come abbia potuto contenere due lustri e mezzo dei nostri amori e, soprattutto, due lustri e mezzo dei nostri errori.

Quanti drammi si sono consumati in quei pochi metri quadri, Nirta solo lo sa. Ma era stupendo: patire divertendosi e divertirsi patendo. A noi ragazze del B-Side c’è sempre piaciuto così: “Crying at the discoteque”, citando gliAlcazar. Sentire forte le canzoni come se fossero scritte e suonate solo per noi; e ballarle con area dolente e mascara sbavato a pochi metri della nostra rivale (intenta a fare esattamente lo stesso). Ci sentivamo tutte così uniche da scoprirci alla fine così uguali. Accomunate dalla musica, i troppi drink e i messaggi alle 3 di notte.

C’erano poi le tiratrici scelte: quelle con mirino puntato su dj, cantante o musicista emergente della scena indie italiana (o almeno bruzia). Un altro fenomeno partorito – a livello local – dal B-Side sono proprio le groupie, nate tra il palco e la toilette e cresciute sui social a colpi di foto imbronciate, rossetto rosso, coroncine e filtri ingialliti.

In un posto nato “controtendenza” ad un certo punto, l’affluenza ed Instagram hanno fatto sì che la moda facesse inesorabilmente irruzione. Dopo la fase iniziale da rivincita dei nerds, dopo i geek in occhiali a fondo di bottiglia, dopo le camice acriliche, infeltrite e i basettoni, la questione si è fatta decisamente più trendy ad opera dei giovanissimi avventori del lunedì. Il Wish ha portato una ventata d’aria cool nel locale prima, e nel resto dell’area urbana poi, divenuta, grazie al moltiplicarsi di shorts e calze velate in pieno giorno, area urban.

Non voglio esimermi dal sottolineare l’importante indotto culturale apportato alla città dalle moltissime produzioni indipendenti messe in scena in quelle mura rosse, ma elencare tutti i live ed i djset a cui negli anni ho partecipato (o ai quali sono arrivata in ritardo) per una che a stento ricorda come tornava a casa dopo, è impensabile. Posso solo asserire con una certa autorità, conferitami da anni di onorata carriera nel night-clubbing, che in quella bizzarra catacomba scorreva sempre una certa adrenalina. Adrenalina e passione. Quella di chi stava sopra e dietro il palco e quella di chi sotto quel palco vi andava in cerca di qualcosa, di un amico o di se stesso.

Il B-Side non è mai stato un posto esclusivo, per fortuna. È sempre stato un luogo inclusivo.

Era bello sentirsi parte di “quella Cosenza”, del lato b della città. Lato b che con i culi messi in mostra in altri luoghi della notte per sopperire alla mancanza di altro non c’entra proprio nulla. Qui il culo si è usato al massimo per twerkare con un presilano col giubbino sempre indosso quando suonava la musica in levare di Mujina. (Mosse dalla convinzione che le colonne non potessero parlare, ed invece parlavamo – eccome – pure quelle. Wtf!). La musica nera è stata altra importante protagonista di questi 13 anni di giostra impazzita scandita dalle urla di Mr Vinz e i vinili di Kerò. E poi Be-Alternative, Cristian, Fabrizio, Vladimir… se dovessi dilungarmi in citazioni e special thanks ci vorrebbero i titoli di coda, per cui non me ne vogliano gli altri.

Ci tengo a precisare che quella che ho raccontando non è la storia del B-Side ma è la mia storia nel B-Side, un asylum d’anime in pena, come me, unite dalla musica, dall’insonnia e dall’inquietudine. Chiunque abbia disceso quella rampa di scale, di storia ha la propria: quella con un pezzo mandato in loop, quella con un giro di basso, un bottellon nascosto all’ingresso. O quella con un buttafuori.

Sarà strano, dopo sabato – data dell’ultimissimo ballo – non svegliarsi più con un classico delle notifiche di fb: “Eri tu ieri sera al B-Side?”.

Sarà strano non svegliarsi mai più con la stanza che odora di B-Side.

E più che strano sarà assurdo – anche per chi per motivi anagrafici non timbrava più il cartellino ogni settimana – non avere più quell’opzione: quando la coscienza suggerisce di tornare di corsa a casa, di sterzare verso Commenda e praticare accanimento terapeutico alla notte. Regalandole l’ultima chance, giammai di un lieto fine ma di un finale alla B-Side: un tuffo negli abissi in mezzo ai nostri scheletri evasi come noi dagli armadi in cerca di un rimedio al tedio. O di qualcuno, mosso da pietas, che ci abbatta.

Carla Monteforte

Thank you and goodbye, Milos Forman

 

 

Dio solo sa quanto Milos Forman sia stato importante nella vita mia e delle mie sorelle. Perché ci sono artisti che non segnano semplicemente la tua esistenza ma hanno proprio un posto alla tua tavola e fanno colazione con te.

Da bambine mentre i nostri coetanei buttavano un occhio sui cartoni preparando la cartella prima di andare in classe noi infilavamo ogni mattina la stessa cassetta nel videoregistratore sistema Beta per guardare uno spezzone qualsiasi di Amadeus, assieme a papà, che assieme a tutto il resto ci stava iniziando ad essere delle “cultrici”. Delle compulsive (e delle specie di stalker di lusso pure).

Una forma di ossessione monomaniacale, quella nei riguardi del film sulla rivalità tra Mozart e Salieri (il talento sregolato che si misura contro la mediocrità imperante), paragonabile solo a quella per i capelli, croce e delizia di tutta la mia vita. Un tormento che mi avrebbe accompagnato dalle scuole elementari – quando la maestra preoccupata dovette chiamare mamma a rapporto perché ogni testo libero che mi assegnava puntualmente veniva dedicato alle mie chiome – fino ad adesso che, quarantenne, ancora mi flagello per ogni cm reciso. E qui la chiudo perché potrei diventare davvero pesante, e non è il caso.

Ma del resto che ci posso fare se da ragazzina mentre gli altri cantavano Creamy, noi ci sgolavamo urlando “HAIR! Flow it, show it, long as God can grow it, my hair!” sognando di scuotere ciocche chilometriche in sella a un cavallo bianco a Central Park per poi finire a ballare su una tavola perfettamente imbandita indossando pantaloni a zampa innanzi ad un pubblico di snob scandalizzati?

E questa malattia chiamata Forman – e chiamata forse anche mancanza di senso del pudore – non guarì certo in adolescenza quando al concerto della scuola Maura ed io, che più che popolari eravamo delle freak, incuranti del bullismo e degli snob scandalizzati di cui sopra, ci presentammo sul palco dell’Auditorium del liceo classico “Bernardino Telesio”, cantando “Aquarius” e “Let the sunshine in”. Che ci fregava a noi di sembrare strane? Lo eravamo! E ci sentivamo pure giuste – innanzi allo sguardo allucinato dei più – ma così giuste che forse proprio allora, per il mondo, diventammo “le sorelle Monteforte”.

Noi che sognavamo l’America e che l’America la mettevamo in scena in casa tutto il giorno, tutti i giorni. Grazie a papà che invece di farci sognare un marito e un impiego in banca ci immaginava a dare i numeri alla scuola d’arte di New York. Per lui non eravamo delle figlie, eravamo delle superstar. Sempre in bilico tra genio e sregolatezza che questo divenne il tema della mia tesi di laurea. Ovviamente su Forman! “Da Caslav ad Hollywood”.

L’esule più famoso dell’industria cinematografica americana che dopo aver combattuto il regime del suo paese attraverso la Nova Vlna –  la primavera del cinema cecoslovacco – lasciò l’Europa per rifugiarsi all’ombra della Statua della Libertà.

Uno come lui – che aveva mosso i primi passi in un contesto in cui il cinema era la più importante forma di propaganda – in America era proprio il cuculo che depone le uova nel nido di altri uccelli. Un infiltrato. Non a caso “One flew over the cuckoo’s nest” – che appunto di un infiltrato raccontava (in un’ospedale psichiatrico) – fu la pellicola che lo consacrò al grande pubblico. E che consacrò noi al borderline tanto che di lì a poi di pazzi criminali e di Jack Nicholson ne avremmo collezionati parecchi. Ma stendiamo un velo pietoso.

In fondo – come Forman e come R.P. McMurphy – nella cittadina in cui siamo nate e cresciute eravamo un po’ delle infiltrate pure noi, troppo piccola, a volte, per contenere tutte le nostre megalomanie. Troppo stretta per la nostra esuberanza e pure per le nostre stramberie.

Di scandali infatti ne abbiamo dati parecchi, per fortuna. Noi che in un luogo dove si entra solo in lista coppie incedevamo come Courtney Love che in “Larry Flynt – Oltre lo scandalo” è Althea, moglie dell’eccentrico fondatore di Hustler, una rivista per soli uomini che fece letteralmente saltare dalle sedie i puritani. Ancora una storia, questa raccontata da Forman, di eccessi, personaggi maledetti ma soprattutto di censura. Un film su un Paese che tuttora si proclama libero ma che è spaccato tra emancipazione e moralismo. Un film sulla libertà d’espressione che sarebbe dovuto essere un vero proprio reminder nei miei anni da giornalista in Calabria, in cui di puritani e censori ne ho incontrati e ce ne sono ancora troppi.

Oggi che non ci sei più, Milos Forman, mi piace immaginarti sulla luna. Vicino ad Andy Kaufman. Ovviamente a fare Karaoke assieme a noi che ci beviamo le lacrime singhiozzando “This friendly world”. Perché nonostante tutto “il mondo è un posto meraviglioso per vagarci dentro”.


Grazie di tutto.
Grazie per averci fatto vivere nella presunzione di essere dei geni anche quando probabilmente eravamo solo dei disadattati.

Thank you and goodbye.

Carla Monteforte

Revolving doors. Hotel Oblio

Avere 40 anni non è così schifoso.Ti imbatti in gente sempre più allucinante e tu sei la gente allucinante in cui si imbattono gli altri. Siamo la resistenza: scarti, ricicli, replicanti, ratti sbucati dai tombini che non si piegano agli ordini della natura, perché della natura noi siamo gli scherzi.

I love to be a freak, guys. I’m a fucking freak.

La gente sana non mi è mai interessata, la vedo dalle finestre mentre incede in macchine che non riconosco con cappotti marroni e segni di emozioni che non identifico. I mostri invece mi sono sempre piaciuti, sono un mostro anch’io.

Ne incontro sempre più spesso insieme ad una marea di figuranti che passano nella mia esistenza come dalla porta girevole di un hotel. Un transito continuo di passanti che si autodistruggono come le foto col timer di una chat di incontri per fedifraghi e depravati.

Quante facce ho dimenticato. Ma è colpa mia?

La gente che non dimentica mi spaventa. Io credo che l’oblio sia un dono divino, datoci da Allah per sopravvivere alle nostre nefandezze.

Negli ultimi tempi mi capita una cosa insolita, raccapricciante: sempre più spesso ho flash di accaduti che la mia mente aveva prontamente riconosciuto come spam e cestinato. Roba imbarazzante, indicibile, vergognosa. Rivedo frame della mia disdicevole condotta e me stessa dal di fuori tipo quelli in coma che riescono a guardare il proprio corpo dall’alto. È inquietante. Inquietante come risvegliarsi e non ricordare come sei tornata a casa.

Inquietante come ricordarsene.

Eppure mi piacerebbe sapere, tra le tonnellate di rifiuti tossici che la memoria ha incenerito, quanta roba buona c’è finita. La memoria è una madre che fa blitz di pulizie nella tua stanza: assieme ad abiti scandalosi, poster, trucchi rotti, monnezza, butta via pezzi di te.

Home sweet home

Ultimamente mi sento a casa. Non ricordavo questa sensazione. Eppure trascorro gran parte del mio tempo da sola, non ho certezze, un maschio col pedigree che badi a me. Il mio vicino ha 2 secoli e mezzo e una malattia neuro-degenerativa: è l’unico del condominio che sa che esisto. Nel mio palazzo non mi conosce nessuno. Sono trasparente. Invisibile. È bellissimo.

La mia casa adesso sono io.

È di nuovo notte mentre frugo tra i pensieri come fossero stracci posti alla rinfusa su un banco dell’usato.

E poi d’un tratto è giorno.

La gente s’affanna nelle proprie ruote. Qualcuno sembra felice. Non lo so, non lo capisco.

Decifrare la felicità è veramente faticoso. Meglio rimandare. Procrastinare gli interrogativi rischiosi assieme ai form da compilare, i documenti da riordinare e il resto delle seccature di vite progettate in caselle che più che esistenze sembrano credenze di Ikea. Fatte in serie e precarie che se ci butto la roba mia crolla tutto.

Ma crollare non è così male. Le rovine nascondono tesori preziosi come prendere coscienza che quella mensolina su cui t’eri accovacciata non sarà mai adatta alla tua stazza. Che la tua tracotanza a fianco alle bomboniere di ceramica proprio non ci sta.

Run baby run!

E allora corri, corri, non perder tempo a sguazzare tra le macerie ché se allunghi l’orecchio da lontano già soave rimbomba il boato dei tuoi futuri disastri.

Perché gli unici errori su cui vale la rimuginare sono i prossimi.

Carla Monteforte

 

(to be continued)

 

Turista per caso (pensieri a caso di una sconosciuta in casa propria)

È incredibile come qualcosa che hai avuto di fronte milioni di volte durante tua esistenza sgangherata possa metterti così tanta ansia. Come questo foglio bianco. Io che ne ho visti, graffiati, posseduti, cavalcati a tonnellate, ora che mi fissa ne ho paura quasi fosse un professore che avanza pretese di interrogarti alla prima ora d’un grigio lunedì mattina di gennaio. (Come se tu, di lunedì mattina, a gennaio, magari entrassi pure in classe…)

Eppure nella testa le idee, i pensieri, gli accaduti, i disastri si accumulano assieme alle piccole grandi vibrazioni di quando muori e poi rinasci. Forse resuscitare è questo: reincarnarti in una te stessa nuova di zecca di cui sai poco o niente. E per questo narrarne le vicissitudini diventa così complicato.

Sono una turista nella mia stessa vita. La coinquilina di me stessa. Un’estranea con cui convivo da poco e di cui imparo a tollerare manie, ansie, insicurezze, lavatrici compulsive e altre ipocondrie, resistendo alla tentazione di sbatterla fuori di casa. Perché la più grande prova di sopportazione è quella verso se stessi.

Hanno aperto le gabbie e sono uscita.

Mi piacerebbe raccontare cosa si prova quando sei una bestia rinchiusa in una gabbia e senza preavviso le sbarre sui cui sbavavi da secoli si aprono e ti ritrovi nel mondo. A piede libero. Senza guinzaglio, catene, manette, cappi o qualsiasi altra briglia che la vita e tu stessa t’eri ficcata in bocca. Una donna delle caverne allo sbaraglio, una fiera abbrutita e affamata senza più segni di civiltà che si ritrova a vagare in mezzo agli umani di cui non si sentiva più nemmeno un esemplare.

Mi piacerebbe raccontare di libertà.

È così assurdo realizzare quanto le scelte più rassicuranti si rivelino sempre errori assurdi.

Bisogna essere sfrontati con la vita, trattarla come fosse un barman appena maggiorenne a cui sbattere le tette in faccia per farti rinforzare il cocktail. Perché a noi le cose annacquate non ci sono mai piaciute: come la felicità, i barman brutti, vecchi o, peggio ancora, femmine.

I bar sono ancora i luoghi in cui continuo ad imparare tutto. Non mi abituerò mai al giorno, inutile. Mi piace la notte, il buio, il degrado, lo schifo. Ci sguazzo con godimento e destrezza e riesco ancora a compiere miracoli: come quello di svegliarmi viva. E struccata, finanche.

Dovrei trasferirmi in uno di quei paesi del nord in cui la notte non finisce mai, lì sì che sarei una vincente. Avrei il mondo ai miei piedi. Trascinerei i tacchi nel buio fino allo sfinimento per mesi mesi e mesi. Perché lo sfinimento è l’unica sensazione appagante delle mine vaganti, come me.

Avrei dietro una miriade di followers, non finti ma di quelli veri in carne ed ossa. Di quelli che ti fissano negli autobus e poi ti inseguono fino al portone di casa e tu sollevi il telefono minacciando di chiamare la polizia. Ogni stagione i maniaci al mio seguito si moltiplicherebbero come pesci di un’interminabile pesca a strascico. Un grande esodo di gentaglia di cui io sarei l’indiscussa regina.

Amo la gentaglia. Cosa c’è che non va in me?

A volte osservo la persone nelle loro vite in ordine e mi domando se è proprio vero che facciamo parte della stessa specie. Se proveniamo davvero da una stessa genesi io e la signora con i pantaloni palazzo che accompagna i figli a scuola col Suv, io e la stambecca taglia 38 che vanno a prendere sotto il portone col macchinone per la decima cena a scrocco, io e la giornalista in giacca bianca di Sky che, non ci si può credere, in tema di ordine, è iscritta allo stesso mio.

Il mondo è pieno di cose inspiegabili. Come la milf con le tette rifatte e il culo di marmo che dopo l’ottava ora di step esce dalla palestra con la piega intatta.

Ci vorrebbe una guida, un angelo custode che viene a prendere anche noi col macchinone impregnato di dopobarba e ci spiega dove stiamo andando. E perché, soprattutto. Ma la solitudine tra tutti i beni preziosi è quello da custodire con più cura. Perché quando la baratti cedendo alla tentazione di sentirti meno perso, allora sì che sei perso davvero.

Mi allontano dal foglio senza risposte. Ma la notte bussa insistentemente alla mia porta ed io resisto a tutto tranne che a uno stalker.

(to be continued)

 

Carla Monteforte

Messico e culo (dedicato a mio padre Franco Monteforte, 20-04-2014)

 

Un po’ d’anni fa, di questi tempi, riempivo una valigia di caftani colorati e altre cianfrusaglie e me ne andavo, dritta dritta, sola sola, in Messico. 

Il viaggio me l’ero conquistato con una mossa astuta di quella volpe di mio padre: l’aveva vinto suo nipote e mentre stava per riciclarlo al fratello, visto che nessuno dei suoi soci poteva andare, lui si era infilato a gamba tesa. Pochi istanti dopo ero al check-in. E poco importa se la sveglia non aveva suonato ed il primo volo Lamézia-Roma si era permesso a partire senza la sottoscritta, che il secondo, dovette sganciare la bellezza di 350 euro (quasi quanto costa un charter per la terra della Virgen de Guadalupe in bassa stagione): stavo per sorvolare l’Atlantico!

Ad ogni modo, dopo una vita di fiera appartenenza alla setta dei vampiri, colta da improvvisa crisi mistica, mi ritrovai nella congrega dei lampadati. Di quel viaggio ricordo l’odore dell’abbronzante al cioccolato e le borse piene di resti di Carovit Melanin per prepararmi al sole tropicale. E, ovviamente, “Star bronzer” di Lancome: un gloss per pelli ambrate che odorava di sole e di Jennifer Lopez. Per sole star: ed io, con chili di lucido e i miei di troppo, mi sentivo una vera strafiga.
Ero finita in un tour organizzato, composto da famiglie di palazzinari napoletani: i classici arricchiti.

Inutile dirvi che li amavo.

La crisi, per pochi mesi ancora, almeno per quanto mi riguarda, sarebbe stata solo un vago ricordo relegato al capitolo sul Keynesismo del mio esame di storia economica superato, a gran sorpresa, con 30. Ero ricca, abbronzata e felice. Almeno così mi sembrava. 

Essendo io dispari, in stanza, mi avevano accoppiato con un’altra zitellona: un esemplare di vergine ventottenne, mi pare di Avellino, che come prima cosa dalla borsa, preparatagli dalla sorella, aveva tirato fuori il rosario. Una concorrente ideale per RealTime, dato che quando dico vergine, questo non ha nulla a che fare con lo zodiaco. Eravamo proprio la coppia giusta per i Tropici! Non vi dico la serenità sulla sua faccia quando aveva intuito con chi era finita in suite; e quella della sottoscritta quando, a Cancun, si paventò la possibilità che oltre la stanza, dovessimo dividere pure il letto. Proprio come mi ero immaginata una delle mete più gettonate dello spring-break degli studenti americani: io, la ragazza più popolare della scuola (mai stata), una perfetta bulla di provincia, in una matrimoniale con una superstite di un Campus di “Adolescenti XXL”. Per fortuna la seminai per strada: lei amava il mare, io avevo fobia degli squali e preferivo la Jacuzzi e l’aqua gym con un metro e mezzo di istruttore indigeno che seguivo tra un margarita e un altro nel bar al centro della piscina del super report di Playa del Carmen da cui i partenopei di cui sopra non sarebbero più usciti – per fare le varie visite nei siti Maya, – perché lì, nello Yucatan, si trovavano in missione: tornare a via Toledo neri come tizzoni per far schiattare parenti e colleghi.

Amen.

Io, invece, nonostante il mio dichiarato amore per il lusso più ostentato che mai, le gite me le feci tutte. E non solo: me le feci proprio come Dio comanda. Anzi come i Maya comandano perché a Chichén Itzá, nonostante il mio terrore per le altezze, salii fino a sopra la Piramide per poi riscenderla tutta di culo. In fondo era stato proprio il culo a portarmi fin lassù. Una gran botta di culo. Una di quelle che non ricordo più che si prova. Una di quelle che mi servirebbe adesso. Adesso che manco più mi ricordo chi ero e che volevo.

Ora se cercate una morale o un finale col botto in questa parabola mi sa che cascate male. Però, un fatto è certo: “Star bronzer” ce l’ho ancora. Credo sia andato fuori produzione però io l’ho ritrovato, per altra botta di culo, in una di quelle bancarelle di trucchi stock che si trovano alle fiere. Dovrei provare a rimetterlo e vedere se odora ancora di sole e di Jennifer Lopez. E, soprattutto, se odora ancora di me.

Scusate lo sproloquio ma è da stamattina che mi bombardo con Mexico di James Taylor. Naturalmente la dedico a papà e lo ringrazio perché magari il mio presente fa schifo ed un futuro non ce l’ho. Ma che un passato ce l’ho avuto questo è fuori discussione!

Il Cottolengo. La Genesi (22-05-2014))

Se sono diventata una socialite lo devo ad A. La mia prima volta in discoteca, infatti, escludendo le feste sfigatissime delle medie (perché al liceo mi piaceva sentirmi alternativa e mi proibivo d’andarci), fu merito suo. 

Il primo anno a Roma lo passammo accodandoci mal volentieri al codazzo del nano, il nostro primo e ultimo amico d’università. Il nostro corrispettivo maschile della periferia di Bari la cui specialità era assemblare accozzaglie umane per formare un cottolengo unico da transumare sino all’uscio dei locali più esclusivi della Capitale – secondo lui – per farci puntualmente rimbalzare causa violazione delle norme minime di dresscode. E di quelle basiche di materiale umano.

Di questo rituale del sabato sera A non era per nulla felice. Decise quindi che il secondo anno sarebbe stato diverso: mai più Wild West e discopub turistici pieni di americani sudati e polacche ubriache che si dimenano sui resti della frittura lasciata sui tavoli. Basta nano! Quest’anno si sarebbe fatto sul serio: saremmo diventate le regine della dancefloor. 

E così fu. 

Il primo passo della nostra evoluzione fu drastico: trasferirci. Da Roma nord, sede del nostro ateneo, migrammo ad est, al capo opposto dei nostri colleghi, accampamento degli studenti fuori sede della Sapienza. Lì ci saremmo fatte nuovi amici ed una nuova vita. E nessuno ci avrebbe mai più associato a quei losers!

Non appena insediateci, credevano di esserci perfettamente mimetizzate con gli indigeni. I discount pullulavano di immatricolati in tuta che facevano scorta di sottomarche di spaghetti e tonno quando gli aiuti umanitari inviati dalle famiglie d’origine scarseggiavano. E così noi: in bilico su tacchi da cubiste andavamo al mercato rionale a far scorta di pomodori e frutta fuori stagione da accompagnare a metri di pizza bianca e kg di Parma. Inutile dirvi che nel quartiere ci facemmo un solo amico: l’egiziano che ci vendeva la pizza. Il resto dei vicini ci scansava come la peste. 

L’egiziano invece era così felice di vederci! Eravamo le sue clienti preferite: le uniche. La sua pizza era una cosa gommosa e indigesta rifilataci a peso d’oro. Ma era sotto casa, per cui nella nostra personalissima concezione di rapporto qualità-prezzo era un vero affare. Il retrogusto d’aglio ci risaliva durante i nostri cavalli di battaglia in discoteca. Perché noi in discoteca alla fine ci saremmo andate eccome! 
Una mattina, infatti, A mise la sveglia presto e scese dal letto agguerrita: la situazione andava risolta. Si recò così in missione alla Sapienza e dopo quattro lunghissime ore tornò alla base stringendo orgogliosa un prezioso bottino: una manciata di biglietti manoscritti e fotocopiati riportanti numeri di spacciatori di saltafila. Poche ore dopo eravamo già in taxi: direzione via Velletri. E quando dico poche ore dopo trattavasi veramente di poche ore, perché noi all’Alien entravamo assieme ai cingalesi che facevamo le pulizie. E con loro ci chiudevamo la porta dietro. 

Intanto il tempo passava e andare a ballare era diventato un vero e proprio lavoro. E noi delle stacanoviste. 

L’Alien era il paradiso: due intere sale da battere da cima a fondo piene di coatti, shampiste, gite scolastiche, cubisti, militari e burini d’ogni dove: la terra promessa. 

La scaletta era sempre la stessa: “I can never be your woman”, “Lemon Three”, un medley dei Gipsy King e quando la serata era fortunata partiva “The rhythm is magic”. E noi con lei. 

La nostra missione di integrarci in società, tuttavia, risultava assai più complicata del previsto. E di quanto qualsiasi ventenne d’adesso potrebbe immaginare: non possedevamo un cellulare. 

Era l’inizio della seconda metà degli anni Novanta e per interagire con resto del mondo toccava utilizzare uno strumento desueto: l’apparecchio fisso. 

Su questo oggetto, ormai feticcio, si potrebbe scrivere una storia a sé: “Il darwinismo del telefono: ovvero la sua evoluzione inversamente proporzionale alla nostra”. 

Il filo del telefono, della genesi della nostra congrega, fu precisamente: il cordone ombelicale. 
 

To be continued

Egea State of Mind (15-09-2010)

 

Nessuno ama realmente Itaca. Si può amare Itaca solo quando se ne resta distanti per una manciata di decenni, migliaia di miglia, qualche musa e una paio di ciclopi. Itaca è un posto dove tornare, non dove stare. Non ho mai ben compreso come mai il regno di Oz spetti sempre a chi non sa apprezzarlo. A chi non lo merita. A chi spreca tutta la vacanza a piangersi gli spaghetti del Kansas. Io gli spaghetti non li ho rimpianti mai, ho preferito sempre intossicarmi con qualche intruglio esotico dagli ingredienti ignoti. Sì, forse vive meglio il topo di campagna che vuole starsene quieto quieto nel suo buco sicuro. Io, comunque, non lo invidio. Io, in quel buco lì, ci soffro di claustrofobia. Tra tutte le formalità e gli obblighi che la vita impone, vedi che tocca per forza amare pure Itaca… Ma perché? Perché non arriva mai il turno di Itaca d’amare noi? Le abbiamo regalato giovinezza, speranze, eros. Ogni granello di inutile passione. Ogni afflato. Lei che ha fatto per noi?  Dicono che bisogna darsi incondizionatamente senza aspettarsi nulla in cambio. Forse io non so amare. Amo Itaca come si ama un marito che non si può lasciare. Con lo stesso trasporto. Penso continuamente ad Egea. È lì che sta casa mia. La casa è quel posto che ti completa, come carne della tua carne. La casa non ti tiene mai prigioniero. Ecco, Egea è così. Mi manca talmente tanto che non respiro. Vorrei tornarci e andare al cinese con le mie amiche, Tesete, Redne, Molpe e Telsiope. E subito dopo, correre al karaoke ad adescare marinai col suono di miele. Zeus misericordioso e onnipotente, ascoltami, riportami sulla mia isoletta!. Indicami quella stramaledettissima strada di mattoni gialli. Stavolta, lo giuro, mi ricorderò di prenderla controsenso.

Memorie di una telesiana – di Carla Monteforte (da il Garantista 19-06-2014)

 

I miei esami di Stato me li ricordo come i giorni più gioiosi della mia vita. Non mi ero preparata nemmeno un tema. Ero troppo pigra anche solo per pensare di dover allestire una cartucciera: molto meno faticoso studiare e contare sulle mie forze. Del resto, di forze ne avevo da vendere.

La mia classe era una classe di poveracci, per i canoni del “Telesio” di allora, nei cui esclusivissimi corridoi passavano prima i cognomi e poi gli esseri umani che li indossavano, abbinati a borse Burberry, kefiah e Smemoranda. In quel regno dei patronimici noi eravamo felicemente nessuno. Questo, tuttavia, era un vantaggio poiché abbatteva le aspettative e, di conseguenza, competizione e ansia da prestazione.

Era il 1995 ed il mondo iniziava a piazza Kennedy e finiva a Carnaby Street, il regalo di promozione più gettonato dai maturandi. Il pomeriggio con Eschilo ad Eleusi e poi la sera con zio Pietro al bar Mazzini. Nella più totale incoscienza gettavamo le fondamenta per un futuro di umanesimo rivenduto a rigaggio i cui risultati avrebbero consolidato la nostra lunga e brillante carriera nei baretti.

Dopo qualche ora sui libri, ed un toto-traccia al telefono (fisso), si montava in sella al motorino. C’era ancora la miscela e c’era ancora piazza Fera. Lì, io ed il resto della mia girl-band, cercavamo riscatto alle fatiche pomeridiane, e a cinque anni di liceo da freaks (l’esatto opposto delle ragazze popolari), tentando di essere notate da una banda di tipacci al contrario nostro piuttosto popolari (tra le forze dell’ordine). Un solo sguardo e le nostre Emmanuel Schvili mutavano in top di pelle nera: e noi in Olivia Newton-John in Grease. Solo che invece del frullato correvamo a strafarci di Coca-Cola e a sedare i nostri embrionali istinti da api regina in pacchi di Highlander al ketchup.

Nessuna di noi aveva la minima idea di cosa volesse fare nella vita, solo una cosa c’era chiara: volevamo farlo a Bologna. Non c’avevamo mai messo nemmeno piede ma allora andava di moda così. Alla fine, ovviamente, andammo tutte altrove.

Nell’aria c’era una strana energia. Quell’energia che s’avverte durante i cambiamenti epocali. Quella era davvero la fine di un’era: al Telesio stava per andare in onda l’ultima puntata della terza H e su Canale 5 l’ultima di “Non è la Rai”.

I miei compagni finirono le prove venerdì. Io rimasi l’ultima da interrogare, il lunedì. Quel weekend di distacco tra la mia seduta e la loro generò in me un certo senso di solitudine, una percezione di diversità, retaggio di chi fa “primina”, che mi sarei portata dietro tutta la vita. Tollerai quel senso di inadeguatezza grazie ai Jefferson Airplane. Arrivai in classe agguerrita nei miei Dr Martens dieci buchi. Una ventina di minuti ed il diploma era mio. Per la maturità, invece, chissà quanto resta ancora da attendere.