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Amor vincit Covid – my fucking quarantine diary part V


Ultimo giorno di detenzione. Mi domando se ai carcerati l’appuntamento con la libertà faccia così paura come a me stanotte. Mi sento molle, grigia, obsoleta. Vorrei bruciare i vestiti che ho indossato in questi mesi di lazzaretto mentale e sotterrarmi. 

Nel mentre il sonno ha avuto la meglio sulla mia vigliaccheria: ci siamo. La giostra è stata riavviata mentre i giostrai dormivano. Gli ingranaggi sono arrugginiti dal lungo stallo e ad ogni scatto le rotelle impolverate emettono uno stridio che contrasta col bel canto delle gazze ancora ignare del loro infame destino. 

We are back!

Più tardi forse prenderò coraggio e andrò a spiare il mondo da due metri di distanza. Intanto il buco della serratura rimanda immagini di redivivi già evasi dalle tombe. Replicanti mascherati che affrontano la prima volta con l’espresso nel giorno uno dell’anno zero post Apocalisse con l’apprensione di un vergine a cui hanno regalato una prostituta per debuttare nel mondo degli adulti. 

Chissà quando sarà la mia iniziazione? 

Il mio cuore ha smesso di battere settimane fa. Scalpitava cosi forte che per non farmi lacerare ho dovuto soffocarlo. Asfissiato da milioni d’imbracature emette ora un labile palpito utile a malapena a sollevarmi dal letto. Avevo cosi tanta vita dentro che mi toccherà mettere di nuovo tutto sottosopra per capire dove l’ho ficcata. Forse dentro i pacchi di roba di cui disfarmi assieme alle cuffiette dell’iPhone che sono l’altro grande giallo della mia poco avvincente quarantena. 

Sono un oggetto smarrito che nessuno è venuto a reclamare. Dal fondo del deposito in cui giaccio vedo la fila di gente accorsa a ritirare il proprio ombrello assottigliarsi e mi domando quante speranze restano che qualche sciagurato venga a reclamare me.

«Cosa me ne faccio della libertà? Io incatenata a te voglio stare» gli urlerei per la gioia di citare finalmente Assunta Patanè che si ritrova nelle braccia dell’ominide che l’aveva ripudiata, per ripudiarlo a sua volta un attimo dopo. Del resto dopo mesi nella mia tana, oggi che ho un biglietto omaggio per lo zoo mi sento poco più evoluta di lei che con treccia e baffi lasciava la Sicilia del delitto d’onore per andare a rivendicare il proprio nella Swinging London. 

Chissà quando potrò tornarci io a Londra? 

Nel dubbio mi sono fatta la ceretta e dal quartiere di fronte hanno sparato i fuochi d’artificio.
Inizia la mia fase due.

Era pieno inverno quando di colpo l’Italia abbassava le serrande e la roulette della mia vita si fermava per pura sorte in Calabria. Nell’armadio ho il miserabile contenuto della valigia fatta in fretta per un breve soggiorno fuoriporta. E a totale vocazione notturna (del resto il giorno mi ha sempre trovata molto meno interessante della notte perché mai avrei dovuto agghindarmi per lui?).

Oggi che hanno schiuso i recinti splende il sole di un maggio sfrontato ed il cappotto di lana italiana che a gennaio mi sembrava l’affare del secolo mi guarda e mi deride. «Cosa me ne faccio di te?» vorrei urlargli mentre fuori esplode la primavera e da mettere ho solo lui e un’ampia gamma di capi maculati. Potrei sceglierne uno per lasciare la gabbia come una tigre che torna nella giungla. Sarebbe bello abbandonare la cattività con passo fiero e felino.

Vorrei sentirmi pronta ad un ingresso trionfale nella vita ma la verità è che sono semplicemente depilata. Mi sento la cavernicola di prima. La caverna ed io siamo ormai un tutt’uno: le mura sono la mia pelle e per oltrepassarle dovrei scuoiarmi. 

Dicono che i contagi in Calabria siano ormai quasi a zero. Intanto i cecchini restano appostati sui tetti coi mirini sui sopravvissuti. Se questo nuovo fosse davvero un mondo migliore io adesso sarei una bionda spia e ad attendermi al cancello ci sarebbe Cary Grant inseguito da un aereo. Ma per me in fila solo uno stuolo di randagi, risultato dei miei 50 giorni di solitudine (e fotografia di un mio probabile avvenire).

La mia sceneggiatura non annovera intrighi. Sebbene gli strilloni riportino un’impennata di vendite d’anticoncezionali a poche ore dall’apertura delle stalle. 

Amor vincit covid: muta il virus e cosi il genere narrativo. Tornano gli amori clandestini e questo potrebbe essere l’happy end di questa fine primo tempo.

Alla fine sono rimasta a casa io. 

Questo nuovo mondo, chissà, forse è lo sconosciuto che aspettavo da sempre. Ma per un appuntamento al buio no, non ho proprio niente da mettermi!

Intrigo internazionale (1959, Alfred Hitchcock)

Thank you and goodbye, Milos Forman

 

 

Dio solo sa quanto Milos Forman sia stato importante nella vita mia e delle mie sorelle. Perché ci sono artisti che non segnano semplicemente la tua esistenza ma hanno proprio un posto alla tua tavola e fanno colazione con te.

Da bambine mentre i nostri coetanei buttavano un occhio sui cartoni preparando la cartella prima di andare in classe noi infilavamo ogni mattina la stessa cassetta nel videoregistratore sistema Beta per guardare uno spezzone qualsiasi di Amadeus, assieme a papà, che assieme a tutto il resto ci stava iniziando ad essere delle “cultrici”. Delle compulsive (e delle specie di stalker di lusso pure).

Una forma di ossessione monomaniacale, quella nei riguardi del film sulla rivalità tra Mozart e Salieri (il talento sregolato che si misura contro la mediocrità imperante), paragonabile solo a quella per i capelli, croce e delizia di tutta la mia vita. Un tormento che mi avrebbe accompagnato dalle scuole elementari – quando la maestra preoccupata dovette chiamare mamma a rapporto perché ogni testo libero che mi assegnava puntualmente veniva dedicato alle mie chiome – fino ad adesso che, quarantenne, ancora mi flagello per ogni cm reciso. E qui la chiudo perché potrei diventare davvero pesante, e non è il caso.

Ma del resto che ci posso fare se da ragazzina mentre gli altri cantavano Creamy, noi ci sgolavamo urlando “HAIR! Flow it, show it, long as God can grow it, my hair!” sognando di scuotere ciocche chilometriche in sella a un cavallo bianco a Central Park per poi finire a ballare su una tavola perfettamente imbandita indossando pantaloni a zampa innanzi ad un pubblico di snob scandalizzati?

E questa malattia chiamata Forman – e chiamata forse anche mancanza di senso del pudore – non guarì certo in adolescenza quando al concerto della scuola Maura ed io, che più che popolari eravamo delle freak, incuranti del bullismo e degli snob scandalizzati di cui sopra, ci presentammo sul palco dell’Auditorium del liceo classico “Bernardino Telesio”, cantando “Aquarius” e “Let the sunshine in”. Che ci fregava a noi di sembrare strane? Lo eravamo! E ci sentivamo pure giuste – innanzi allo sguardo allucinato dei più – ma così giuste che forse proprio allora, per il mondo, diventammo “le sorelle Monteforte”.

Noi che sognavamo l’America e che l’America la mettevamo in scena in casa tutto il giorno, tutti i giorni. Grazie a papà che invece di farci sognare un marito e un impiego in banca ci immaginava a dare i numeri alla scuola d’arte di New York. Per lui non eravamo delle figlie, eravamo delle superstar. Sempre in bilico tra genio e sregolatezza che questo divenne il tema della mia tesi di laurea. Ovviamente su Forman! “Da Caslav ad Hollywood”.

L’esule più famoso dell’industria cinematografica americana che dopo aver combattuto il regime del suo paese attraverso la Nova Vlna –  la primavera del cinema cecoslovacco – lasciò l’Europa per rifugiarsi all’ombra della Statua della Libertà.

Uno come lui – che aveva mosso i primi passi in un contesto in cui il cinema era la più importante forma di propaganda – in America era proprio il cuculo che depone le uova nel nido di altri uccelli. Un infiltrato. Non a caso “One flew over the cuckoo’s nest” – che appunto di un infiltrato raccontava (in un’ospedale psichiatrico) – fu la pellicola che lo consacrò al grande pubblico. E che consacrò noi al borderline tanto che di lì a poi di pazzi criminali e di Jack Nicholson ne avremmo collezionati parecchi. Ma stendiamo un velo pietoso.

In fondo – come Forman e come R.P. McMurphy – nella cittadina in cui siamo nate e cresciute eravamo un po’ delle infiltrate pure noi, troppo piccola, a volte, per contenere tutte le nostre megalomanie. Troppo stretta per la nostra esuberanza e pure per le nostre stramberie.

Di scandali infatti ne abbiamo dati parecchi, per fortuna. Noi che in un luogo dove si entra solo in lista coppie incedevamo come Courtney Love che in “Larry Flynt – Oltre lo scandalo” è Althea, moglie dell’eccentrico fondatore di Hustler, una rivista per soli uomini che fece letteralmente saltare dalle sedie i puritani. Ancora una storia, questa raccontata da Forman, di eccessi, personaggi maledetti ma soprattutto di censura. Un film su un Paese che tuttora si proclama libero ma che è spaccato tra emancipazione e moralismo. Un film sulla libertà d’espressione che sarebbe dovuto essere un vero proprio reminder nei miei anni da giornalista in Calabria, in cui di puritani e censori ne ho incontrati e ce ne sono ancora troppi.

Oggi che non ci sei più, Milos Forman, mi piace immaginarti sulla luna. Vicino ad Andy Kaufman. Ovviamente a fare Karaoke assieme a noi che ci beviamo le lacrime singhiozzando “This friendly world”. Perché nonostante tutto “il mondo è un posto meraviglioso per vagarci dentro”.


Grazie di tutto.
Grazie per averci fatto vivere nella presunzione di essere dei geni anche quando probabilmente eravamo solo dei disadattati.

Thank you and goodbye.

Carla Monteforte