Sanremo: Maria dentro ragazzi fuori (ultima puntata)

 

Ci voleva Maria per eliminare dal podio gli Amici di Maria. La notizia di Sanremo 2017 è fondamentalmente questa: che nessuno della scuderia di Lady Fascino è tra i primi tre, proprio nell’anno in cui Lady Fascino si è materializzata in carne ed ossa, senza essere solo una figura celeste che aleggia nell’Ariston senza mai apparire. Insomma Maria dentro ragazzi fuori, per citare, più che Risi, Clementino a cui tocca l’ultimo posto in classifica ed un’estate tra lidi e discoteche della costa.

La De Filippi, che comunque, oltre a quelli dichiarati, di infiltrati ne ha infilati in vari ruoli un po’ ovunque (Leonardo Fumarola, Diana De Bufalo, Emma autrice, Pino Perris, Fabrizio Moro, Amara e chissà quanti altri) può tornare finalmente a buttarsi sulla sua di scala, quella di Uomini & Donne, a lanciare lenti in studio sulle note di Elodie e Sergio (che schizzeranno miracolosamente in classifica) dimenticando così il matrimonio combinato con Conti. Convivenza forzata e visibilmente faticosa come quella di due coinquilini vincitori di borsa, sistemati dall’Università in una stessa maisonette, ma che in comune non hanno nemmeno l’attitudine alla pasta e tonno.

Vince Gabbani che, con un testo scritto a quattro mani col generatore automatico di parole, manda a casa Fiorella Mannoia spaccando così in due la lobby gay e di donne divorziate costituitasi in onore del festival. Un pacco di vittoria l’hanno tacciata indignati i fan del romanticismo disperato e dell’immobilismo tele-musicale. Mentre per gli estimatori del gorilla quella di Gabbani è piuttosto una vittoria di pacco. Pare infatti che più che le doti canore a far vincere il cantautore siano stare le doti nascoste. Amen (citazione).

 

Ad ogni modo il festival è riuscito anche in questa edizione nella sua missione: scontentare tutti. Il pubblico del Serale, i sostenitori della Turci, i malati di duetti, le ragazzine in crisi d’astinenza da boyband, gli amanti delle vallette ma più di tutto le ex. Dopo Rocìo, la Pellegrinelli, una botta si è sentita da Città di Castello alla discesa di Tina, nuova toygirl di Cassel, francese, ed il cui unico nesso con l’Italia è proprio la Bellucci. Crudeltà.

Crudeltà come un festival che tratta da super ospiti internazionali gli scarti – vedi Vallesi – e rottama i dinosauri della musica per poi dar loro il contentino (vedi Albano premiato al novantesimo per il miglior arrangiamento e per evitare polemiche).

Sebbene la polemica del festival sia proprio l’ingrediente principale. Soprattutto la solita di chi schifato non lo guarda e per non guardarlo nuovamente sarà costretto ad aspettare un anno intero.

 

Colpo di scena all’Ariston: il festival del dolore elimina i “casi umani” (quarta puntata)

 

 


Ormai ad un passo dall’estrema unzione, il festival Conti-De Filippi si è a sorpresa levato il respiratore (lasciando invero senza fiato gli altri) con più di un asso tirato fuori dalla manica: una valletta, un giallo ed il colpo di scena finale.

Quando le speranze sembravano perdute la tanto invocata taglia 40 con spacco inguinale si è materializzata sulle scale dell’Ariston nella figura di Marica Pellegrinelli, che entrerà nei credits di questa edizione come valletta a tempo determinato e “moglie di”. Il top per le comari più scrupolose in cerca di difetti nella perfezione. La signora Ramazzotti bis ha letteralmente accecato il pubblico con la sua beltà e soprattutto con due smeraldi da gran sera a Dubai grandi quanto le Eolie. Finalmente il lusso svergognato, l’ospite di cui più si avvertiva l’assenza, ed i cambi d’abito hanno preso parte alle kermesse in cui la lycra aveva fatto da padrone. Bella, alta, magra e stonata la modella bergamasca avrebbe dovuto essere presenza fissa della maratona in cui, si sa, l’inutile è fondamentale.

Delude invece Virginia Raffaele che nei panni di Sandra Milo sembra giusto vestita a Carnevale. Di solito irresistibile, la trasformista, della musa felliniana stavolta coglie solo la superficie ma mai l’essenza: bravissimi i make-up artist, mediocri gli autori. Peccato. Fortuna che, ai saluti finali, si riprenda con una perfida allusione al sospensorio di Maria. Cattiveria pura, e per pochi, che fa schizzare il punteggio della comica. E i maligni dalle poltrone.

Maria tanto, si sa, è superiore a queste cose, controlla gli ascolti, i suoi cavalli e per il resto vive in quella condizione che nella mitologia greca era detta “atarassia”: la non curanza, «quello stato di perfetta tranquillità e serenità d’animo, raggiunto dal saggio una volta libero dalle passioni». Lo stesso pare non si possa dire del collega. Ed ecco il giallo: si rumoreggia di una lite tra i due presentatori che avrebbe avuto origine dal fatto che il battitore Rai mal sopporti che la signora Mediaset gli rubi da scena. (E senza sforzo alcuno) Perché se è vero che Conti è spigliato nella conduzione, Maria, dal canto suo, è una divinità. Non ha bisogno di saper leggere, parlare, vestirsi, coniugare verbi correttamente: i suoi credenti la amano per fede.

E a tal proposito se la medaglia di Lele era scontata – essendo il vincitore di Sanremo Giovani della scuderia Amici (concorrente dell’ultima edizione, nonché fidanzatino di Elodie) – chi avrebbe invece mai pensato – ed ecco il colpo di scena – che l’Italia della tv del dolore avrebbe preso a calci nel didietro quel poveretto di Gigi D’Alessio (poveretto in senso letterario essendo questi in pieno crack finanziario) e soprattutto Al Bano, reduce da non uno ma due infarti?!

Qualcosa è cambiato nel Paese dalla lacrima pronta (lo sa bene la Atzei, si spera in preciclo, che grazie ad una crisi ha scampato l’eliminazione) e dei casi umani. Il Paese che ha braccia grandi da accogliere in una sola scaletta: Rai, Mediaset, amori perduti, le Foibe, consigli per gli acquisti e pure la jihad. E registrare comunque record di ascolti!

Perché se è vero che Allah è grande, è anche vero che finora non se l’era vista con Maria.

Sanremo cover, togliamoci la voglia di duetti (terza puntata)

Giro di boa fatto. Meno due alla libertà, quel giorno in cui apriranno le gabbie e torneremo nel mondo reale ad ignorare Ermal Meta e Gabbani (Che poi chi cazzo sono si è capito?) e a fregarcene di come siano finiti questi tizi nella casta che fu di Dalla e di Modugno, mentre noi stiamo ancora a commentare il festival in pigiama sul divano. Stranezze della vita, che poi è quell’intervallo che intercorre tra un Sanremo ed un altro. Un buco temporale che ti scaraventa dal ventre di Ivana Spagna alla lista saltafila Vanilla di Gigi D’Alessio.

La serata cover, c’è da ammettere, è sempre la più rilassante. A parte per gli interpreti originali che la subiscono. Come Miguel Bosé che riporterà in Puerta del Sol gli indignados dopo il remake di Zarrillo che ha trasformato in canzonetta da ferragosto in piazza a Fuscaldo quel capolavoro di “Se tu non torni”. Alcune cose dovrebbero essere vietate dalla legge. O forte proprio dai 10 comandamenti. Come un Sanremo senza cambi d’abito e marchetta allo stilista.

Sanremo uccide Sanremo. Se questo festival partiva già monco, senza vallette e corrispettive mises, adesso decide di immolare un altro elemento fondamentale della sua stessa essenza: i duetti. Eliminate entrambe le coppie composte da rapper semi(s)conosciuto e compagna non pervenuta. Che peccato! In gara, tra quelli a rischio, resta ciò che resta della Atzei dopo l’ammollo in Amuchina, la Ferreri e quel gran manzo di Clementino (per la felicità d’o rione) mentre le uniche due canzoni degne d’essere replicate in un karaoke di paese, cestinate senza pietà, come direbbe la Oxa riproposta da Paola Turci, raffinata e brava ma certamente non all’altezza dell’originale (perché, con tutto l’affetto, Anna è Anna).

Tornando al sacrificio dei duetti, con loro ci lascia l’elemento trash horror che poi è uno dei motivi per cui ci piace il festival, che non è un programma musicale – come vanno millantando quegli stolti che inorridiscono del format chiamando in causa canzoni, note e majors – ma è un sacro rituale al quale ogni volta partecipiamo per vomitare tutta la bile repressa in un anno ed uscirne così, 5 giorni dopo, persone migliori.

E intanto lento scorre il tempo verso la finale, quel giorno in cui si decreterà il vincitore, e il resto di Facebook, gli haters che lottano per boicottarci parlando anche loro soltanto di Sanremo, tornerà ad odiarci per questioni più serie. Tipo un referendum sulla bomba atomica o la finale di Amici.

 

Sanremo, la mimosa appassisce ma spuntano i limoni (seconda puntata)

 

Un Sanremo così casto non lo si vedeva dai tempi in cui Gigliola Cinquetti non aveva l’età e miagolava d’aspettare. Ma qui a furia di aspettare – che succeda qualcosa (o che scenda una fregna dalla scala) – i centri d’ascolto stanno trasformandosi in camere ardenti mentre la mimosa appassisce (e noi assieme a lei).

Per esempio, stanco d’aspettare che la festa decollasse, Robbie Williams ha pensato bene di rompere gli indugi sorprendendo Maria con un limone a centro pista, come uno studente fuori sede in preda al Tavernello durante un giovedì universitario. Ce ne fossero ancora di studenti come lui, di quelli che esci di casa come Bianca Atzei e torni che sei la Bertè, grande assente del “ Sanremo the best” della prima puntata e di tutto il festival, orfano di stile, grinta e delle sue icone. Triste come quando fai ritorno nel tuo club dopo una lunga assenza ed al posto della tua golden crew trovi un mucchio di sconosciuti promossi a “big” che ancheggiano nei loro acrilici da due lire e ti ricordi perché invece di uscire resti a casa a guardare Sanremo.

Triste come crescere mentre la tv invecchia.

A proposito di vecchiume, una parentesi andrebbe aperta, e subito richiusa, sui comici che non fanno ridere ma che mettono voglia di passare canale e a miglior vita sottoponendosi ad una maratona Ėjzenštejn: perché a Conti fatti la cosa migliore del festival resta sempre la controprogrammazione. Chissà perché poi il meglio della settima arte viene sempre fuori mentre Chiara sta spirando sul palco dell’Ariston senza essersi fatta lo shampoo? E chissà perché nessuno trova più opportuno lavarsi i capelli prima di prender parte al corrispettivo italiano del Super Bowl americano? Lo spazio tv più pagato dagli sponsor e più seguito dai teledipendenti.

Bah, misteri della fede.

Come quelli che ci tengono incollati al divano a cercare di capire chi cazzo sono Raige e Giulia Luzi mentre là fuori un Erasmus strafatto di San Crispino aspetta solo di beccarci in fila al bar come Giorgia. E farci tornare a casa come la Rettore.

Sanremo senza vallette? Maria, chiudi la busta

 

 

Come un branco di leoni affamati aspettavamo Sanremo per sbranarci i protagonisti ad uno ad uno e sedare il nostro appetivo represso vomitando le nostre frustrazioni sulle vite (e gli abiti) degli altri, ed invece, invece delle carni e del sangue, abbiamo avuto in pasto un pasticcone di melatonina servitoci da Maria in abito da ricovero e Carlo Conti pronto per l’imbarco a Malindi.

È stata dura ma alla fine ce l’abbiamo fatta a rimanere sveglie alla scaletta di Telethon spacciata per Sanremo. Sì, perché Sanremo è Sanremo non è Pomeriggio 5 dove tra uno stacchetto e lo spot di Coconuda trovano spazio eroi e morte. Troppo lunghi i momenti di tv-verità e troppo male inseriti in un format dove a stento trova spazio la musica.

Detto questo, ciò che più è mancato nella prima serata del programma “delle larghe intese” – come ha giustamente detto Crozza prima di servirci il colpo di grazia – sono le vallette. Sanremo è come la messa: senza chirichetti non si canta. Ed i sanremesi sopravvivono al susseguirsi delle edizioni (e dei conduttori) bramosi di scandali e spacchi da deplorare. Di taglie 38 da fare a pezzi a suon di radiografie e abiti inguinali per i quali invocare il comune senso del pudore e la morale. Parliamoci chiaro: un festival senza signorine discinte e lascive che ammiccano dalle scalinate leggendo a fatica il gobbo (peggio di Maria) non è un festival. Fortuna che sul finale, quando i bambini già erano a nanna, Conti ha fatto scendere le scale a Diletta Leotta, fresca di video hard e per questo promossa all’Ariston (come Paris, come Kim).

Ma quello iniziato ieri è stato in assoluto il festival delle ragazze anni ’90 che agguerrite ancora attendevano l’avvento di Ricky Martin e del suo movimento pelvico che 20 anni e passa prima le aveva introdotte agli ormoni. E 20 anni e passa dopo alla disperazione placata, per fortuna, da Tiziano e dalla sua compagna Carmen Consoli la cui hit, la più cantata da donne quarantenni in crisi e omosessuali bloccati nel traffico, ha dato Conforto all’angoscia e reso divertente l’esaurimento. Di una vita ancorata ai poster di Cioé e di un festival da chiudere la busta e rifugiarsi in un’altra depressione.

Bowie, biochetasi e tempi di ripresa brevissimi

FESTIVAL DI SANREMO 1997 – NELLA FOTO DAVID BOWIE OSPITE AL FESTIVAL

Sono passati 20 anni. Il 1997 l’attesa era grande: Mike presentava un grande Sanremo e Bowie cantava Little Wonder, colonna sonora di un periodo felice e fondamentale della mia giovinezza e della mia vita intera. Il 2 luglio dello stesso anno l’avremmo visto a Pistoia. Io la mattina della partenza avevo la febbre alta ed un’intossicazione in corso. Mi svegliai nella mia casa di via Cremona 59, Roma, in delirio e con Maura, più in delirio di me, che mi saltava sulla pancia convinta fosse il giusto metodo per farmi riprendere. Alla fine come Lazarus resuscitai e partimmo. 
Ogni giorno quando la vita mi sembra schifosa dovrei ripensare a quella mattina e al fatto che non importa se e quanto stai male, l’importante è avere tempi di ripresa brevissimi.

Piccole followers crescono (il Garantista, 21-06-2014)

Vorrei provare quel senso d’eccitazione da sabato che prova un’adolescente disadattata nel vagliare gli accessori più tamarri che ha per appostare uno stinginato che le piace e che a stento le dirà “Ciao”. 

Quanta gente insignificante abbiamo inseguito in vita nostra! A metterli insieme avremmo potuto allestirci il pubblico di Forum. Siamo andate dietro a così tante bestie che l’unica consolazione alla vergogna nel ripensarci è che fortunatamente non siamo state ricambiate (e che nessuno se li ricorda più). Pensa se ci avessero voluto! Pensa se uno solo di quei tontoloni a cui abbiamo riservato inseguimenti di massa su Corso Mazzini ci avesse degnate di uno sguardo! Chissà in che condizioni saremmo ora? Forse avremmo due o tre pargoli alle elementari, una cucina in muratura e una bifamiliare sulle T di Paola. Forse ieri saremmo andate a farci fare i boccoli col ferro per andare a vedere i saggi di danza delle nostre prosecutrici, panzute e scoordinate, per noi prossime etoile alla Scala. Forse oggi staremmo a fare polemica sui social vivisezionando la pagella dei nostri Einstein imprecando contro le ingiustizie della scuola, il costo della politica e piove Governo ladro. O forse saremmo in qualche trasmissione del pomeriggio protagoniste dell’ultimo massacro familiare regalando ai nostri vicini i famosi cinque minuti di celebrità – “Era bizzarra ma gentile”, “C’era qualcosa che non andava, si truccava troppo” – e al nostro Fb un’impennata di commenti (“Ci vuole la sterilizzazione”, “Lapidatela!”). Bisognerebbe sempre ricordarsi di impostare al massimo la privacy del proprio profilo prima di andare a trucidare qualcuno, altrimenti, poi, mentre siamo in gabbia, si riempie di giustizieri da tastiera e quando una decina d’anni dopo usciamo per buona condotta lo troviamo infestato di improperi.

Condizionale a parte, il nostro presente è il risultato degli innumerevoli – nonché inspiegabili – rifiuti subiti. La nostra libertà, la somma dei rigetti ricevuti. Il nostro charme, il prodotto dei dinieghi accumulati. Ha tutto più senso visto da questa prospettiva. Che non da quella di un cranio osservato da dietro che ondeggia spavaldo fingendo di non accorgersi di noi appresso. Come se non accorgersi di noi fosse possibile! Cari crani in ascolto, che adesso vi ritrovate in casa una faina agguerrita che strepita per la parete attrezzata, questa è la punizione divina per non esservi girati a guardarci. E la dimostrazione per noi che tutto faceva parte di un disegno più grande. In poche parole: mica credevate di piacerci davvero? Non s’insegue perché ti piace qualcuno: s’insegue perché ti piace inseguire.

Le fiere degli altri (da il Garantista 20 marzo 2015)

Somiglia all’estate la fiera, quella stagione sempre uguale a se stessa ma dalla quale ogni volta ci si aspetta un colpo di scena finale. Un affare, un amore, un tento omicidio. È il fiume di Eraclito dalle cui acque apparentemente identiche non esce mai fuori lo stesso bagnante, ma un uomo diverso dall’esaurito che vi si era tuffato in pausa pranzo: più povero e più compulsivo. La settimana dell’orgullo dei maniaci e degli accumulatori seriali ogni anno spacca il mondo a metà, dividendo il genere umano in due blocchi: quello dei fanatici e quello dei boicottatori. E negli ultimi tre giorni, al mercato, inutile dirlo, c’erano entrambi. Il talebano che “perché la fiera di San Giuseppe non si fa più a Lungocrati?”, il tormentato che non guarda tv e non frequenta bancarelle finitovi per colpa dell’eclissi, il discotecaro tutto Mdma e marshmallow fianco a fianco con la signora in Burberry, la signora in ciabatte, la signora in giallo e la signora appartatasi nella traversa col senegalese. Tutti riuniti sotto uno stesso cielo in questo Asylum all’aperto allestito in pieno centro città. Del resto, cosa c’è di meglio che mettere da parte le vecchie diffidenze e ritrovarsi tutti insieme appassionatamente in uno stesso luogo per far finta di non conoscersi? Il bello della fiera è proprio questo, buttarsi nella mischia ed uscirne ancora più asociali. Ogni 19 marzo si apre questo enorme buco nero che risputa fuori la qualunque: soggetti che credevi mummificati dopo il diploma che si manifestano da quello dei piatti facendoti scoprire, con sommo sgomento, che non erano deceduti, si erano semplicemente riprodotti; e poi gente che credevi esistesse solo online che si materializza in carne ed ossa, gente che credevi esistesse solo su Nat Geo che si materializza tra i vimini e gente che credevi esistesse solo in galera che si materializza a piede libero. Praticamente la lista “persone che potresti conoscere” di Facebook che equivale a persone che hai sempre evitato (sui social e su Corso Mazzini). Vale la pena investire gli ultimi spicci per godersi dal vivo questa passerella di fenomeni che manco Discovery. E lasciare che gli altri si godano noi. La fiera è democratica: ognuno, tra un tritaverdure e un profumo Camel, mette in gioco se stesso sacrificando un po’ della propria superbia, del proprio stipendio e del proprio decoro all’altrui autostima. Perché mentre noi siamo impegnati a ridacchiare dietro il risvoltino del paesanotto sceso dalle montagne per farsi il guardaroba nuovo, un paesanotto in risvoltino è impegnato a immortalare il nostro sederone per deriderlo nel suo gruppo Whatsapp. C’è chi la ama e chi la odia questa primavera araba come il kajal del marocchino che parla napoletano che non ci ha voluto togliere cinquanta centesimi sulla matita Dior tarocca ché quei centesimi gli servono per portare a giugno la moglie salernitana in un beauty center di Dubai, ma alla fine come sempre ci andiamo tutti. Per fare affari, per fare mano morte, per fare brutto, per dare sfogo a ogni sorta di disturbo alimentare e del comportamento in genere. La verità, però, è che ci andiamo tutti per sentirci migliori. Ecco perché nonostante gli olezzi, gli accoltellamenti, Ron, Fausto Leali, la merce cinese, gli stalker, gli zingari, i negri, il traffico, la culona col leggings bianco e il perizoma nero tra un anno esatto ci ritroveremo – la sciura della Cosenza bene, il fashion victim con dipendenza da anfetamine, la cougar con dipendenze da manzi subsahariani, ed il tormentato che odia Sanremo i mercatini e noi tutti – a fare abluzioni in questo stesso Gange che di portentoso, oltre alla pompa annaffiatrice che si allunga, ha solo di illuderci ogni volta di essere altro dagli altri.