Dacci oggi il nostro Zirtec quotidiano – my fucking quarantine diary part IV

Rinchiusa nella torre senza un drago ho ceduto: faccio ufficialmente parte di quei milioni di italiani che stremati dall’isolamento si sono immersi nel proprio armadio nel disperato tentativo di trovarvi dentro un po’ di vita perduta. Quando non è possibile muoversi nello spazio non resta che farlo nel tempo. 

(E ad ogni modo la mia vita è di fatto finita in un cassonetto: tanto valeva rovistarvi)

Se penso a tutta la spazzatura altrui acquistata nei mercatini negli ultimi anni mi spiego come ho potuto tenermi stretta la mia. Quanta robaccia ho custodito e quanta roba di valore ho perduto: il mio armadio è la metafora della mia vita. Fortuna che sotto una montagna di stracci inutili alla fine spunta sempre una ventenne che scalpita per andare in discoteca.

Che stadio della quarantena è quando tiri fuori le foto cartacee? Ecco, ho superato quello. Ho cucito sulle mie piaghe ali di struzzo e sono volata nel ‘99 a farmi abbracciare dalla persona che più mi capisce: la me stessa dell’epoca. Siamo identiche.

In questi giorni le parole d’ordine sono due: “riaperture” e “prudenza”. Praticamente la bellezza della prima è totalmente vanificata dall’orrore della seconda.

Andando al sodo: se tutto andrà bene rimetteremo piede in un bar a fine maggio – previa tuta spaziale – e una carica di esplosivo ci farà saltare le budella se ci avvicineremo al bancone. (La vera jihad è questo virus: il mio stile di vita è sotto attacco)

In ogni angolo del pianeta continua la conta dei defunti: a New York si torna a seppellire nell’isola dei disperati. È agghiacciante. Eppure il mondo visto in cartolina dalla mia finestra sembra intatto: le stagioni si alternano, i pollini galleggiano, le gatte figliano. La natura continua la sua corsa incurante dell’uomo che resta indietro e scopre d’essersi sentito protagonista di un colossal di cui era poco più di un figurante. 

Detto questo l’inquietudine è tanta e mi tormento su come potremo sostenere una vita di restrizioni noi che non abbiamo mai imparato nemmeno a sostare sul lato destro della scala mobile. Andremo formattati e riprogrammati. Questo pensiero mi terrorizza. Vivere come un androide mi terrorizza.

Eppure già mi ci sento un automa da appena apro gli occhi e realizzo che questo non è un incubo e senza trasporto mi lancio nei miei gesti quotidiani: doccia, caffè e una sbirciata nelle vite degli altri che continuano a moltiplicare pani e pesci, nella candida illusione che riproducendo il miracolo dell’Eucaristia il Salvatore giunga presto a guarirci. Chissà.
So solo che chi sopravvivrà alla pandemia del 2020, dovrà superarne un’altra ne 2021: quella dei matrimoni. L’industria della nozze è ferma per cui dopo quella al lievito assisteremo alla corsa agli altari, strillano i giornali. Terminate le date appetibili, i promessi sposi che avranno scongiurato la peste non si faranno certo fermare dalle superstizioni e festeggeranno il loro amore pure di 2 novembre. 
Ho un mancamento.

( Una maratona di cerimonie era proprio quello che ci serviva dopo una quarantena!)

Nel mentre la mia capsula del tempo in linea all’algoritmo ha sputato un reperto del matrimonio di un cugino con me diciannovenne signorina garbatissima, un istante prima che lo champagne mi trasformasse in Courtney Love. Quante volte ho messo in imbarazzo i miei genitori e quante volte ho messo a disagio la mia famiglia. Quanto mi manca! 

Dal fondo della mia trappola oggi rimpiango le mie nefandezze e persino le inquisizioni di mia madre che indaga su eresie reali e non su chi abbia preso il suo caricatore.

In attesa che l’acqua come a Cana tramuti in vino, segno che l’Altissimo non dimentica le pecorelle ree di non aver panificato, per precauzione tengo sotto mano il numero del mio spacciatore. Al bicchiere della sera ieri ho aggiunto un antistaminico regalandomi un’ora (o forse due) di meritata narcolessia. Nel mio stato catatonico sono evasa dal purgatorio e mi sono ritrovata a travasare Gordon’s in bottigliette di plastica assieme ai miei amici di sempre in fila a una festa. Eravamo giovani e padroni dell’universo.

Abbi pietà di noi, Signore! Giuro che dalla parabola ho imparato la lezione: riportami viva su un bancone e mai più cederò alle lusinghe della vodka. Tornerò a bere gin finché morte non ci separi!


Stregata dalla luna – my fucking quarantine diary part III


Notte di super luna: sono un licantropo in gabbia. 

Ho voglia di ululare alla finestra come quando dopo una svernata in discoteca mi toccava la quarantena sui libri e al calar del sole come una lupa urlavo il mio dolore al cielo mentre i Kula Shaker invocavano Govinda e i condomini di via Cremona la polizia. “Per queste ce vuole ‘a camicia de forza” faceva eco il palazzo di fronte. 

(Trascorsi quasi 25 anni, il mio branco ed io continuiamo a considerarlo un complimento) 

Mi manca Roma. Baratterei mille di queste notti inutili per un’alba sul Gazometro nel 1998. L’esilio mi rende nostalgica o forse sono solo vecchia. Che culo: ho vinto un posto in poltronissima per la prima del mio film di cui sono unico spettatore.

Mi manca andare al cinema da sola. Appena avrò scontato il mio debito con l’universo comprerò un biglietto per un evento che non interessa a nessuno e lo sbandiererò orgogliosa all’ingresso e saprò di essere di nuovo io: un’anima in pena. Farò di queste catene che adesso mi tengono legata delle collane e sfebbrerò ballando con me stessa come quando, termometro a 39, presi due notturni per andare a vedere i Suede all’Horus Club. Entrambi adesso non esistiamo più. 

Ho letto una notizia che ha riacceso la mia fiamma: in uno zoo di Hong Kong due panda giganti si sono accoppiati! Erano 10 anni che gli operatori tentavano invano e adesso, grazie alla pandemia, lontano dai guardoni, la scintilla è scoccata. 

Quante letture meriterebbe questa parabola!

 L’amore non va forzato, innanzitutto. La natura men che meno, dovrebbe essere ormai chiaro. Ma mentre l’immagine dei due cinesi in amore è ormai un film a reti unificate nella mia testa, prendo atto che il romanticismo è l’ultima deriva alla quale voglio essere trascinata dalla cattività e l’improvviso afflato tra i due coinquilini non mi convince più: mi pare la solita vecchia storia che quando non ci capita di meglio ci accontentiamo di ciò che abbiamo a portata di mano. L’amico di sempre, il compagno di cella o l’ultimo decente rimasto a fine festa. 

Ad ogni modo, visto che la liaison ha occupato oggi parte del mio tempo da buttare,  forza Ying Ying e Le Le: dateci ancora dentro, siete tutti noi! 

Quanto mi piacerebbe essere sotto la console all’ora dei saldi. Farmi molestare dall’ultimo scarto rimasto sulla terra. 

Dicono che quella di stanotte sia la terza super luna dell’anno, la più bella. Ho dovuto chiudere le tende per non farmi tentare. Vivo internata da un mese: sentire la vita fa bene, sentirne troppa è un frontale. 


Andrebbe evitata ogni fonte di euforia. Pure la luce, come si fa dopo un intervento oculistico: s’indossano le bende e solo gradualmente si riemerge nel giorno. 

Chissà come sarà tornare a vedere, mi domando mentre nelle bende c’è avvolta chi ero ed il mio corpo è il suo sarcofago.  

In questi giorni la parola d’ordine è fase due: c’è chi freme. Io sono terrorizzata: ci faranno guardare il mondo ma non potremo toccarlo. 

Intanto i cavalli della notte continuano la loro corsa indisturbati mentre non troppo lontano scorgo ancora il rumore di zoccoli della giumenta che ero. Non chiedetemi di calmarmi quando mi leveranno le briglie. Sono consapevole che questo pensiero contraddice quello precedente ma la luna in cielo pulsa, nonostante le tende, e mi serve far finta di credere che quando apriranno le stalle potrò tornare a galoppare libera. 

O, vi supplico, fatemi abbattere.

To be played at maximum


Domenica di passione – my fucking quarantine diary part II

Domenica è un giorno sacro: è il giorno dedicato all’hangover. E la riflessione di oggi, per quanto mi riguarda, potrebbe benissimo concludersi qui. Andrò avanti mossa solo dalla necessità di spendere in qualche modo questo tempo rubato alla mia vita.

La domenica è il giorno in cui noi fenici risorgiamo dai nostri incendi. Mi manca godermi i miei sudati mal di testa, galleggiare beatamente nei sensi colpa, frugare tra le rovine del mio cervello alla ricerca di indizi sul delitto della sera precedente. Ho nostalgia dei blackout, di quel conflitto eterno tra memoria e oblio. 

In città volano droni, dicono. Nel pianeta dei dimenticati, dove sono io, di nuovo le tortore. Le scruto dalla finestra, ormai non esco più nemmeno in giardino. Lascio che la natura si goda indisturbata la sua breve festa. Nonostante i presagi, non mi convinco che la razza umana sia prossima all’estinzione. Non oso immaginare la delusione delle povere belve quando ci vedranno uscire nuovamente dalle gabbie. 

Il mondo prende fiato, intanto. E cosi il mio corpo. Ma non mi sento per niente felice.

Finirò di scontare la pena accompagnandomi ad un alleato insolito: il vino rosso. L’ho scelto perché non ne bevo mai. Volevo accanto a me qualcosa che avrei abbandonato senza drammi. Come si sceglie un amante d’estate, senza promesse. So che questi giorni avranno per sempre il sapore del nettare tanto atteso della sera e qualcosa mi dice che non vorrò rievocarli.

Quando sono in viaggio sono solita ordinare Margarita: non ci sono ragioni romantiche, è un cocktail difficile da sbagliare. Se penso al mondo là fuori sento il sale sulle labbra che si fonde all’aspro del limone e ho voglia di tuffarmi in un oceano di tequila e nuotare fino a NYC per farmi un happy hour al Village. Una delle prime persone che si è premurato di avere mie notizie quando in Italia è esplosa l’emergenza è stato il buttafuori dell’Hangar, un afroamericano di Brooklyn, sulla cinquantina, omosessuale, con cui ho condiviso un’indimenticabile mezz’ora della mia vita. 

Se esco viva da qui il primo cocktail sarà alla tua salute, Devon!

Intanto la giornata scorre lenta e la tv fa da sottofondo a questo tempo informe. Non ci faccio quasi più caso ormai: morti, canzoni, farmaci miracolosi.

Tutto avrei immaginato nella vita mia eccetto mi sarei trovata a pregare per un vaccino, eppure di preghiere assurde ne ho rivolte a migliaia a questo Dio. Credo m’abbia bloccato su tutti i social.

Giorni fa ho visto Almodovar battere le mani dal suo balcone di Madrid. Mi è sembrato così solo, per la prima volta l’ho visto anziano. A vent’anni, tornando alle preghiere indecenti, supplicavo Dio affinché me lo facesse conoscere. Ero certa si sarebbe innamorato di me, lo sono tuttora. 

Vorrei abbracciarlo.

Ho appena avuto un pensiero da stalker (evviva, sono ancora viva!): se fossi a Madrid, dove l’ho cercato disperatamente, violerei la quarantena per recarmi sotto casa sua. Ora so dov’è! Farei la pazza come Banderas in “Legami” pur di fargli sentire: “Te quiero, Pedro”. E questo assurdo film terminerebbe con una folle corsa su un’auto rubata e noi due che cantiamo a squarciagola “Resistiré” (che non a caso è diventata l’inno della quarantena española)

Quando tutto sarà finito (tamponi nel trolley) tornerò, Madrid!  Madrid mia, querida Madrid, che sempre m’hai donato vita, vederti così piegata es una herida en el alma. Tu alma es mi alma, Madrid. Resisti!

Torneremo a santificare le domeniche trascinandoci come zombie nel Rastro alla ricerca di cose tanto inutili da farci sentire indispensabili. A perderci in labirinti di passione e lasciarci dominare dalla legge del desiderio. 

Dobbiamo solo aver fede e nelle coctelere torneranno soda y vermùt. Ed il giorno dopo la testa farà così male che sapremo che Dio c’è. 

Perché la resaca è solo un altro segno del Signore per ricordarci che siamo vivi. 

Resistiré- Dùo Dinàmico (scena finale di “Legami” di Pedro Almodovar)

Party girls interrotte – My fucking quarantine diary (part I)

Non ce la faccio a dormire. Stasera, come molte altre che l’hanno preceduta, mi sono dedicata all’esercizio della memoria ripercorrendo pezzi di vita felice attraverso foto e video custoditi nella mia scatola nera, l’iPhone.

In questi giorni ho spesso la terribile sensazione di essere un puzzle smontato in mille pezzi e con disciplina provo a ricomporlo cercandomi nei frame del passato recente. Il mio viaggio nel tempo mi riconduce puntualmente nei meandri nella notte: per ricordarmi chi sono ho sempre l’esigenza di rivedermi truccatissima, lasciva, agguerrita, con musica assordante e drink in mano. Tra le tante me stesse che ho perso questa è quella che mi manca di più.

È sabato, un altro perso, un altro guadagnato.

Il silenzio che mi circonda contrasta la tempesta che sento dentro immaginando il rumore del ghiaccio che sbatte nel vodka tonic che mando giù durante la festa che si consuma nella mia testa.
Ho deciso di non sentirmi in colpa nei sempre più rari momenti in cui faccio spazio alla vita in mezzo a tanta morte.

Tutta questa morte intorno mi stringe il petto e mi accorcia il fiato. Non ero preparata ad essere una sopravvissuta. Eppure tante volte mi sono sentita superstite di me stessa e questa è un’altra nota assurda di questa vicenda: ho sempre creduto sarebbe stata la mia vita ad ammazzarmi, ma mai che mi avrebbero sepolta viva.

Se è vero che non prenderemo più aerei, il mio jet privato stanotte è volato a Miami. Ho un vestito troppo sbottonato sul davanti e avanzo per la Washington in cerca di guai.

(Apro una parentesi: se un giorno doveste cercarmi, come sto facendo io stanotte, provate prima al bar e poi dove c’è aria di marcio: lì mi troverete certamente)

La notte di Miami Beach è un abito che a gran sopresa mi veste alla perfezione: mi fa sembrare bella ed elegante persino. La gente che conta è subito ai miei piedi: pusher e buttafuori mi amano, le chiavi del paradiso sono mie. Il lusso pornografico dei clubbers ci fa sembrare tanto italiani, ma per una volta nel senso buono. Pensano che siamo gente di classe, li abbiamo fregati!

(Altra nota: se andate da quelle parti ricordatevi sempre di portare con voi un amico che si sente Gianni Versace)

Per strada tutti ci fermano, o siamo noi che fermiamo tutti, mica l’ho ancora capito.

Ogni passo un tuffo in un’altra vita. La gente ci regala un tour di qualche minuto nella propria esistenza. È meraviglioso. Ogni persona è una scatola cinese che ci conduce alla successiva. Amo gli sconosciuti.

Gli sconosciuti sono le persone che più mi mancano in questo isolamento. Non che non pensi alle braccia di un amico in cui sprofondare disperatamente, ma nel mio labirinto la ricerca di pensieri felici riconduce sempre al vicolo cieco della gente a caso.

Vivo isolata da un mese e provo alienazione dal mio stesso corpo. Lo sento altro da me, come fosse vuoto e dentro s’udisse l’eco generatasi dallo spazio lasciato vuoto dalla mia anima. Il mio spirito vaga tra l’Ade e le discoteche in cui ho trascorso tre quarti della mia esistenza che probabilmente dagli inferi, poi, non sono cosi  differenti.

Questo pensiero risveglia inevitabilmente nei miei ricordi il mito di Orfeo e Euridice che in effetti è la trasposizione letteraria del mio dilemma precedente: se sono uscita illesa dalle notti di Testaccio ho buone possibilità di uscire viva pure da questo di inferno. Vedremo.

Nel frattempo l’idea di essere stata surgelata come un bastoncino di merluzzo torna ad abbassare la temperatura del mio sangue: è primavera e ho freddo. Ho i piedi sempre gelidi da quando mi hanno internata. Se chiudo gli occhi però sento il vento caldo dell’Ocean Drive: è l’Atlantico che mi regala una carezza per convincermi ad addormentarmi.

È tardi e forse adesso ho sonno. Rimanderò i tormenti a domani con un’unica conclusione: se dovessi non farcela portate a spasso le mie ceneri con Uber pool e scrivete nel mio epitaffio “She’s in parties”.