Piazza Kennedy, vent’anni dopo. Ed il cuore batte ancora

Quant’è ingiusta la vita, prima ti fa provare il liceo e poi ti schiaffa in un mondo di vecchi, brutti, pieni di tasse da pagare e figli da prendere a scuola. Che schifo. L’esistenza dovrebbe andare alla rovescia: così invece di perderci potremmo ritrovarci. Belli, senza rughe, col cuore in gola ed un mondo nel diario. Come quando facevamo la miscela al Sì per fare le ronde a piazza Kennedy ed i nostri genitori, giovani pure loro, le facevano intorno a noi.

 

Della mia piazza Kennedy è questo che mi manca: il vagare senza meta. Ma come se fosse una missione. Il non avere bisogno di nulla, perché ci bastavamo.

Chi l’avrebbe mai detto che la giovinezza sarebbe diventata un nodo in gola? Come quello provato ieri mentre dopo 20 anni lasciavamo di nuovo quel metro quadro in cui i nostri cuori avevano battuto all’impazzata pedinando bulletti di quartiere da cui puntualmente venivamo respinte. Ignorate, per l’esattezza. E per fortuna.

Essere ignorate era bellissimo. Essere delle ultime era stupendo.

 

Io e le mie amiche eravamo il gradino più basso della scale sociale di un luogo grande pochi passi e che ci sembrava l’universo. Sotto di noi solo i freaks. Eravamo strane e male assortite. Ma la mano non ce la lasciavamo mai. Di tutti quelli che abbiamo inseguito senza pudore (e senza parlare) dalla Concessionaria al Mazzini, dal Bar Carbone a Marcello, all’appuntamento di ieri, come da pronostici, non si è presentato nessuno. Del resto ce lo aspettavamo, nessuno di questi si è mai nemmeno iscritto su Facebook per paura di essere nuovamente rintracciato. Forse finire gli orali degli esami di Stato, voltarsi per cercare lo sguardo degli amici e ritrovarsi noi (perfette estranee) in aula non è stata proprio la bella esperienza che avevamo ipotizzato quando ci siano presentate allo Scorza a regalare l’ultimo trauma al più bello e dannato degli anni Novanta, Pietro. Piaceva a me e all’amica mia – cosa inconcepibile adesso – ma allora si poteva fare. La parola stalking non era stata ancora inventata, e noi già lo praticavamo di gruppo.

 

Quanta gente inutile abbiamo tallonato. Non so nemmeno perché li inseguivamo. Non volevamo nulla: non cercavamo attenzioni, affetto. Di certo non cercavamo sesso. Fondamentalmente ci piaceva solo inseguire. Appostarci dietro ad uno e rincorrerlo starnazzando mentre dall’altro una più lucida (si fa per dire) ci ammoniva: «Adesso state per fare una di quelle figure che peggiori al mondo non se ne possono fare».

Ma che ce ne fregava?

 

La cosa più tremenda che la vita da adulte potesse propinarci è stato farci fare i conti con l’apatia , un’emozione prima sconosciuta che ti entra dentro e si nutre delle altre. Ti infetta, te le le risucchia. Quant’era bello invece soffrire. Struggersi d’amore ad una cabina telefonica per qualcuno di cui manco sapevi la voce se non per il «Pronto». Quant’era stupendo raccattare gettoni, trovare numeri di rete fissa sull’elenco di un bar, chiamare a raffica e poi riattaccare.

La cosa più brutta che l’epoca contemporanea potesse fare è stato rendere obsolete le telefonate anonime.

 

Poco prima che scattasse l’ora legale, ieri, ci siamo regalate un sogno: le lancette le abbiamo messe indietro di più di due decenni, noi. Non c’erano figli, mariti, compagni, colleghi, piattole, piaghe, ragadi e tutti i prodotti con data di scadenza oltre il 1995.

A piazza Kennedy siamo arrivate in pieno stile piazza Kennedy: appuntamento a piazza Fera, puntatina da Pranno e poi vasca.

Mentre a casa mi preparavo, e durante tutto il tragitto che dalla farmacia Serra porta al Cinese di via Alimena, sentivo l’elettricità sotto pelle. Quell’aspettativa, quella frenesia ingiustificata e perduta che mi mancava da troppo. Almeno quanto mi mancavano le aquile, le vere (uniche) grandi assenti. Perché per il resto, ieri come allora, non mi mancava proprio nulla.

In fondo chi dopo 20 anni è tornato in quel luogo non cercava qualcosa o qualcuno. Se non se stesso.

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La caduta di O.J. Simpson e la nascita di Kim Kardashian


Racconta la genesi delle Kardashian, in sintesi, The People v. OJ Simpson, regine dei social che probabilmente oggi sarebbero delle perfette sconosciute senza quel seguitissimo reality, datato 1994, che fu l’omicidio di Nicole Brown e Ronald Goldman da parte del campione di football afroamericano, di lei marito, protagonista di “The Bronco Chase” (la tentata fuga in autostrada con tanto di inseguimento dell’intero corpo di polizia di Los Angeles e dei maggiori network degli States che lo trasmessero in diretta TV h24 con un seguito di 100 milioni di telespettatori), e che prima di finire dietro le sbarre, circondato da celebrieties e vicini Wasp, nero non si era sentito mai.

 
La prima stagione di American Crime Story, costola di American Horror Story (stessa matrice, stesso autore), si concentra sulla vicenda mediatica, prima che giudiziaria, di The Juice ma soprattutto del suo “dream team”, un pool di avvocati di lusso, tra i quali si fa strada l’amico di sempre del running back ed allora sconosciuto ex marito di Kris Jenner, Robert Kardashian.

 
La serie, di cui finora sono state trasmesse quattro puntate, narra l’odio razziale della Los Angeles degli anni ’90 (su cui si fonda tutta la difesa), la nascita dei processi mediatici in cui innocenza e colpevolezza si designano in conferenza stampa, avvocati e pubblici ministeri superstar e vittime relegate a ruoli marginali della loro stessa morte.
Ma soprattutto racconta la caduta di un mito, O.J., e la nascita di un altro, Kim. Perché senza quel sacrificio a Brentwood, oggi, non esisterebbe nemmeno il contouring.

 

P.S.
Da vedere assolutamente in lingua originale per i seguenti motivi:
1) per godere dell’interpretazione a denti stretti di un sublime John Travolta (nei panni dell’avvocato Bob Shapiro)
2) per non perdersi la voce roca e la metrica di Cuba Goodinf Jr (O.J. Simpson)
3) per desiderare un’ultima sigaretta prima della sedia elettrica assieme alla procuratrice Marcia Clark (Sarah Paulson)