Il neoproibizionismo – my fucking quarantine diary part VII


Il mondo si prepara a issare il sipario dopo le generali. Nei backstage c’è fermento. I superstiti impazienti già hanno preso posto in platea mentre, nel foyer, le chiacchiere tornano a fare da padrone. Si inveisce a caso, in attesa che il cellulare del parrucchiere torni libero per prenotare taglio e colore. In fondo alle scale c’è persino un gruppetto di negazionisti ariani che manifesta contro l’esistenza del virus: le immagini dei feretri sulle camionette militari sarebbero una farsa come il “moon hoax”, la balla dell’allunaggio opera di Kubrik, prodotta dalla Nasa per sferzare un colpo ai russi in guerra fredda. 

Il rumore è tornato prima della vita. Forse avrebbero dovuto internarci per sempre.

È incredibile che sia venerdì.  

Gli ultimi giorni li ho trascorsi imparando a tenermi a galla in queste acque ignote. Resto dove si tocca. 

Questa maledetta prudenza è l’ultima compagna con cui avrei sperato di dividere il mio tempo. Mi tedia come un astemio che mi marca ad uomo mentre sono in fila al bar. 

(Annoto tra le cose da fare nella vita bonus: “eliminare gli astemi”) 

Un vento caldo soffia sulla mia pelle ed è come un mal d’Africa: provo di nuovo qualcosa ma somiglia a un rimpianto. Sono una Lamborghini ferma in garage nelle mani d’un apprendista elettrauto che fa prove di rianimazione sul mio cuore scarico. Mi riaccendo, accelero, freno. Vorrei sfrecciare libera per le strade e affrancarmi da questo senso d’impotenza che mi castiga il corpo.

Che ho fatto in tutto questo tempo? 

La mia mente è assurda: programmata a rimozione, spazza via tutto ciò che non le garba come una massaia frettolosa di sparecchiare. Persino in quest’occasione non tradisce la sua natura: se provo a fare un riepilogo dei mesi appena trascorsi ho serie difficoltà. Sono passate poche lune dal mio rilascio eppure la detenzione perde già contorni come se le ruspe si fossero subito azionate per demolire quest’edilizia del dolore allestita nel cantiere dove sarebbe dovuta sorgere la mia vita

Come ci sono finita in questo gran casino?

 Ero al bar sotto casa a Roma a sfogliare quotidiani, leggevo d’un regista trovato morto in quarantena a Wuhan assieme al resto della sua famiglia, tutti sterminati dalla nuova Sars e d’un tratto mi ritrovo a Cosenza assieme alla mia di famiglia in quarantena pure io; il tempo di compatire i cinesi dai balconi che a quei balconi c’eravamo noi. Per il resto profumo di biscotti, retorica e bicchieri di rosso mandati giù come gocce di veleno. Anestetici emozionali, fard e fuochi fatui. E poi gatti, gatti e ancora gatti. 

Quanti felini servono per sopravvivere ad una pandemia sola? Mi domando mentre dalla moderna Olanda altre intellighenzie hanno decretato che per noi gattare sarebbe prudente adottare un micio fisso. Basta randagi raccattati in strada, solo esemplari in semilibertà che tornano alla ciotola timbrando pure il cartellino. 

Che orrore questo nuovo mondo in cui tutto è misurato col centimetro: la fila nei supermercati, le sedute dall’estetista e ora pure il numero di rognosi con cui infettare i nostri talami.

C’è chi dice che il virus sia già un ricordo lontano. Non ne ho idea, per buon auspicio mi sono messa lo smalto. Man mano che il gioco passa di livello aggiungo un pezzo di me alla persona che avevo smontato e riposto in scatola. Un vezzo, un retaggio borghese, qualcosa che mi ricordi che un tempo sono stata viva e incandescente come l’acetone che inalo a pieni polmoni in onore di quel popper che a 20 anni quasi mi stese in un cesso del Goa. 

Chissà se torneremo mai a ballare…

Questo è l’ultimo weekend della prima fase del neoproibizionismo prima del debutto nel mondo degli automi. Plexiglass, file, armature. Sotto quelle mascherine potrebbe esserci di tutto. Anzi peggio: c’è tutta gente già censita. Finiremo per accoppiarci con conosciuti (il nostro incubo peggiore sta per avverarsi)! Sento la mia vita così finita che quasi quasi ci spero in un’invasione aliena.

Un marziano è sempre meglio che smezzarsi pizza e covid col vicino.

Fase 2, la Terra vista dalla luna – my fucking quarantine diary part VI

La messa è finita, andate in pace!

Amici superstiti, è con immotivato orgoglio che comunico a voi tutti che ieri ha avuto luogo il mio battesimo su Marte. Col fiato ancora trattenuto ho circumnavigato il nuovo pianeta osservandolo con candore, spalmata all’oblò della mia navicella. Dev’essere questa la sensazione che provano i pesci quando incrociano lo sguardo dei visitatori negli acquari, mi sono detta per tutto il tempo della veloce ronda che ho imposto a me stessa per produrre anticorpi al virus dell’agorafobia.

Somigliava ad un lento sabato di fine luglio la città riemersa dagli abissi in questo inizio maggio che non dimenticheremo. L’ho costeggiata in ogni latitudine osservandone scorci e figuranti per riconoscere segni familiari dietro le mute. Che strana questa terra vista dalla luna (che non lontana pulsava fino a quasi esplodere allineandosi ai battiti dei cuori tramortiti dei risuscitati)! 

Il mondo si crede chissà chi ma in fondo è solo un set dismesso senza i suoi attori (quelli che ti fanno visitare nei tour organizzati negli Studios), ho pensato in un guizzo di ritrovata tracotanza. «Alla vostra sinistra potete ammirare la casa dove nel 1960 Alfred Hitchcook girò Psycho. Hi Norman, hi everybody». 

«Ciao Norman, ciao psicopatici» ho salutato le scenografie in disuso del nostro film precedente che una dopo l’altra si alternavano al mio cospetto, sentendomi più che un membro del cast una turista americana che tracanna diet coke in pantaloncini e visiera attendendo l’agguato dello squalo su una navetta Universal. 

(Poche ore più tardi avrei piazzato la mia bandierina sulla crosta terrestre. Un piccolo passo per un uomo, un grande passo per una disadattata)

Il virus non è morto ma è vivo e lotta assieme a noi! Gli scienziati si domandano perché abbia sterminato i cinesi di Wuhan e i laboriosi bergamaschi graziando quasi tedeschi e calabresi (e miracolando gli abitanti di Hong  Kong e dell’Isola del Giglio). Scopriamo pure che Bela Lugosi non è morto ma ha fondato il partito dei vampiri, già in piazza a rivendicare il diritto a succhiare il plasma dei guariti.

«Chi è questa gente? Chi sono questi alieni? Perché mi conoscono?». 

Sebbene il cielo sia d’una bellezza imbarazzante la sopravvivenza nel nuovo mondo si prospetta meno facile del previsto. Nella mia prima vera giornata di quasi vita non ho riconosciuto pressoché nessuno dei Visitors nascosti nelle armature che salutavano il mio passaggio. 

Questa esistenza bonus è praticamente un after (se mi avessero avvisata ci sarei arrivata ubriaca almeno, e non morta di sonno)! Dopo tanto buio il ricongiungimento con la luce è glorioso ma al contempo inopportuno come quando ancora vestita dalla notte prima col sole alto affronti la passeggiata della vergogna sgattaiolando fuori da un festino. 

Intanto che le mandrie tornano al pascolo ovunque s’ode l’eco delle cassandre che pronunciano vaticini catastrofici invitando le vacche a rientrare in fretta nei recinti altrimenti ad attenderle ci sarà il mattatoio.

Vivere o sopravvivere? Si domanda oggi Amleto messo al bivio che separa Netflix e lo spritz. Il diavolo è assai scaltro e per conservarsi muta pelle come il Covid ed entrambi potrebbero adesso aver assunto le seducenti sembianze del Campari o dello stallone costretto ai domiciliari con la consorte che vorrebbe ora assembrarsi con te per raggiungere il climax e in caso pure l’immunità di gregge. Che ansia!

Gli americani che stanno sempre avanti per ottenerla si sono rivolti invece che ai virologi direttamente ai p.r.. Scopriamo quindi che nello stato di Washington esiste un luogo chiamato Walla Walla e che alcuni dei suoi abitanti organizzano party con gli infetti special guest.
“Torna la febbre del sabato sera” potrebbero titolare i tabloid prima di passare al servizio successivo in cui Tony Manero attaccato a un respiratore mostra un cartello con su scritto “andrà tutto bene” e dai balconi parte “Stayin’ alive”. La paura di un nuovo lockdown è il vero nuovo coinquilino con cui ci toccherà dividere l’affitto in questa fase due. 

“Restiamo vivi” potrebbe essere l’inno perfetto di questa nuova, sgangherata era in cui la città riprende ad agitarsi, tutti si scuotono ed io mi sento Neil Amstrong per il solo fatto d’aver tirato fuori la bici dal garage.

Amor vincit Covid – my fucking quarantine diary part V


Ultimo giorno di detenzione. Mi domando se ai carcerati l’appuntamento con la libertà faccia così paura come a me stanotte. Mi sento molle, grigia, obsoleta. Vorrei bruciare i vestiti che ho indossato in questi mesi di lazzaretto mentale e sotterrarmi. 

Nel mentre il sonno ha avuto la meglio sulla mia vigliaccheria: ci siamo. La giostra è stata riavviata mentre i giostrai dormivano. Gli ingranaggi sono arrugginiti dal lungo stallo e ad ogni scatto le rotelle impolverate emettono uno stridio che contrasta col bel canto delle gazze ancora ignare del loro infame destino. 

We are back!

Più tardi forse prenderò coraggio e andrò a spiare il mondo da due metri di distanza. Intanto il buco della serratura rimanda immagini di redivivi già evasi dalle tombe. Replicanti mascherati che affrontano la prima volta con l’espresso nel giorno uno dell’anno zero post Apocalisse con l’apprensione di un vergine a cui hanno regalato una prostituta per debuttare nel mondo degli adulti. 

Chissà quando sarà la mia iniziazione? 

Il mio cuore ha smesso di battere settimane fa. Scalpitava cosi forte che per non farmi lacerare ho dovuto soffocarlo. Asfissiato da milioni d’imbracature emette ora un labile palpito utile a malapena a sollevarmi dal letto. Avevo cosi tanta vita dentro che mi toccherà mettere di nuovo tutto sottosopra per capire dove l’ho ficcata. Forse dentro i pacchi di roba di cui disfarmi assieme alle cuffiette dell’iPhone che sono l’altro grande giallo della mia poco avvincente quarantena. 

Sono un oggetto smarrito che nessuno è venuto a reclamare. Dal fondo del deposito in cui giaccio vedo la fila di gente accorsa a ritirare il proprio ombrello assottigliarsi e mi domando quante speranze restano che qualche sciagurato venga a reclamare me.

«Cosa me ne faccio della libertà? Io incatenata a te voglio stare» gli urlerei per la gioia di citare finalmente Assunta Patanè che si ritrova nelle braccia dell’ominide che l’aveva ripudiata, per ripudiarlo a sua volta un attimo dopo. Del resto dopo mesi nella mia tana, oggi che ho un biglietto omaggio per lo zoo mi sento poco più evoluta di lei che con treccia e baffi lasciava la Sicilia del delitto d’onore per andare a rivendicare il proprio nella Swinging London. 

Chissà quando potrò tornarci io a Londra? 

Nel dubbio mi sono fatta la ceretta e dal quartiere di fronte hanno sparato i fuochi d’artificio.
Inizia la mia fase due.

Era pieno inverno quando di colpo l’Italia abbassava le serrande e la roulette della mia vita si fermava per pura sorte in Calabria. Nell’armadio ho il miserabile contenuto della valigia fatta in fretta per un breve soggiorno fuoriporta. E a totale vocazione notturna (del resto il giorno mi ha sempre trovata molto meno interessante della notte perché mai avrei dovuto agghindarmi per lui?).

Oggi che hanno schiuso i recinti splende il sole di un maggio sfrontato ed il cappotto di lana italiana che a gennaio mi sembrava l’affare del secolo mi guarda e mi deride. «Cosa me ne faccio di te?» vorrei urlargli mentre fuori esplode la primavera e da mettere ho solo lui e un’ampia gamma di capi maculati. Potrei sceglierne uno per lasciare la gabbia come una tigre che torna nella giungla. Sarebbe bello abbandonare la cattività con passo fiero e felino.

Vorrei sentirmi pronta ad un ingresso trionfale nella vita ma la verità è che sono semplicemente depilata. Mi sento la cavernicola di prima. La caverna ed io siamo ormai un tutt’uno: le mura sono la mia pelle e per oltrepassarle dovrei scuoiarmi. 

Dicono che i contagi in Calabria siano ormai quasi a zero. Intanto i cecchini restano appostati sui tetti coi mirini sui sopravvissuti. Se questo nuovo fosse davvero un mondo migliore io adesso sarei una bionda spia e ad attendermi al cancello ci sarebbe Cary Grant inseguito da un aereo. Ma per me in fila solo uno stuolo di randagi, risultato dei miei 50 giorni di solitudine (e fotografia di un mio probabile avvenire).

La mia sceneggiatura non annovera intrighi. Sebbene gli strilloni riportino un’impennata di vendite d’anticoncezionali a poche ore dall’apertura delle stalle. 

Amor vincit covid: muta il virus e cosi il genere narrativo. Tornano gli amori clandestini e questo potrebbe essere l’happy end di questa fine primo tempo.

Alla fine sono rimasta a casa io. 

Questo nuovo mondo, chissà, forse è lo sconosciuto che aspettavo da sempre. Ma per un appuntamento al buio no, non ho proprio niente da mettermi!

Intrigo internazionale (1959, Alfred Hitchcock)