Sanremo. Incontri ravvicinati con uno Zero

di Carla Monteforte

La cosa più bella di questo Sanremo è che finalmente è finito e possiamo tornare a piede libero.

Dopo cinque giorni di domiciliari arriva la conferma che, con la riforma elettorale del Governo Conti, pronostici sui vincitori non se ne possono fare e che se fino ad un paio d’anni fa c’era rimasta qualche certezza adesso siamo precari pure all’Ariston.

Nonostante le Cassandre lo avessero annunciato, infatti, chi aveva mai creduto alla possibilità che una a cui pure lo stilista ha ritirato gli abiti poteva conquistare il podio? (Preceduta da una reduce del precetto pasquale) Assurdo.

Assurdo almeno quanto i tre quarti d’ora di monologo di Renato Zero che, dopo aver cavalcato l’Onda gay tra i ’70 e gli ’80 (con non pochi profitti), nel festival Arcobaleno si presenta vestito a lutto per celebrare la morte di se stesso. Silenzio sulle unioni civili, non una parola sulla stepchild adoption (nonostante un’adozione da single datata 2003), se non uno strambo riferimento a taluni “alieni”, forse metafora democristiana di “omosessuali”. Fa bene la Bertè a non parlargli più.

Il videomessaggio di Loredana che saluta Patty da Niagara Falls (la quale, grazie all’auspicio, incassa il premio “Mia Martini”), è stato il momento cult dell’ultima puntata e dell’intero Festival. Anche perché altri non ce ne sono stati.

Superospiti della porta accanto, giullari di corte, abiti da grandi magazzini. L’alta moda è stata la grande assente di questa edizione in cui forte si è sentita la mancanza delle dive sanremesi che di grazia felina illuminavano la scalinata, in Versace fasciate.

Una carrellata di femmine goffe e dai capelli unti si sono alternate facendo sospirare la frangetta bombata di Fiordaliso, il riccio jungle di Marcella Bella e persino il rosso Flavia Fortunato. Perché Sanremo si nutre di orrido, ma di orrido che muta in poesia.

Per il resto, compresa la vincitrice (degli Stadio), gran parte delle canzoni sono già belle e dimenticate. A parte quella di Rocco Hunt che troverà riscatto in feste patronali e auto smarmittate a Scampia; quella di Arisa (identica alle precedenti). E quella di Bernabei con la quale, se saremo così sfortunate da sopravvivere, assisteremo all’esaltazione in pista dei più squallidi esemplari femminili, ogni qual volta un dj della costa, trasmettendola, deciderà di rimarcare quanto fa schifo il posto in cui suona e il mondo dove vive.

Un mondo in cui Cristina d’Avena è acclamata special guest a furor di web; in cui a decretare il vincitore del festival non è più il televoto (ma un Parlamento di nominati); in cui uno che ha scritto una canzone che si chiama “L’altra sponda” si converte alla parrocchia. Un mondo in cui per festeggiare un altro Sanremo tocca aspettare il 2017.

Dolcenera, Annalisa, Belen. È il festival delle schiaffo

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La quarta puntata di Sanremo è stata figa come una festa in cui tutti sono ubriachi mentre tu non puoi farti manco uno shottino perché hai iniziato la dieta. Resti perché è un impegno preso ma nel mentre sogni di fare un bagno in una vasca di Campari, come Morgan. O come Belen che, dopo l’apparizione di Virginia Raffaele (e del suo stacco di coscia) ha provato ad affogare la bile nella schiuma. E, fallito il tentativo, ha optato per la superiorità postando un frame delle tube di falloppio della copia, con complimenti annessi. Un grande schiaffo morale!

E non è stato l’unico, perché lo schiaffo è il vero trionfatore della 66esima edizione del festival. Un sempreverde dell’hairstyle sanremese, adottato di sera in sera da tutte le concorrenti: da Noemi ad Irene Fornaciari passando per Annalisa e Dolcenera che, per essere più extreme ’80, ha dormito pure con schiuma e inventaricci, facendosi svegliare un secondo prima di sedersi al piano, ancora in stato catatonico. Beata lei.

Non è successo proprio niente in questo venerdì rubato alla vita sociale ed investito in quella social. Non una gaffe, non un precario che tenta il suicidio, manco uno straccio di allarme-bomba. Niente di niente. Neppure un pederasta con utero in affitto imbarcatosi dalla moderna Bretagna per minacciare la famiglia tricolore. Tanto che ad un certo punto qualcuno degli autori, temendo il calo di ascolti, ha pensato di rivolgersi al pubblico di Buona Domenica annunciando come super ospiti i due Marò. O qualcosa del genere. Ma i due soldati hanno chiuso la busta perché di italiani fuori concorso ce n’erano già troppi.

Superstar della semifinale una padana: Elisa. E la notizia non è che dal suo ultimo shampoo saranno passati non più di quattro giorni ma che, se a finire nel ruolo che fu di Madonna, Bowie e Simon Le Bon, ce l’ha fatta una senza smalto allora ce la possiamo fare tutte. Anche Debora Iurato in H&M. Sebbene tutto questo orgoglio patriottico sia contro tutte le regole del festival della canzone italiana, caro Conti.

Nato negli anni Cinquanta, quando gli italiani, usciti da due guerre, sognavano l’America di cui Elvis divenne incarnazione e dalle cui costole nacquero Bobby Solo e Little Tony, Sanremo l’esterofilia ce l’ha proprio nel dna. Come noi. Per cui, signor direttore artistico, l’anno prossimo si ricordi di investire due spicci in una bella boyband da crisi isterica. Perché senza, non possiamo sognare una terra promessa e nemmeno un mondo diverso.

 

 

 

Sanremo cover. Tra imitazioni e tarocchi trionfa Donatella

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di Carla Monteforte

La terza puntata di Sanremo l’ha vinta Donatella Versace, the original, che dalla pagina ufficiale della maison ha invitato la sua imitatrice (Virginia Raffaele) a farle da controfigura, non prima, però, di essersi circondata da uno stuolo bonazzi e fatta una piega da urlo. Ma Donatella è Donatella, non c’è Raffaele che tenga, la quale, tra le altre cose, può solo ringraziare la vera della confidenza ricevuta e di essere ancora viva e vegeta invece che incaprettata in un container tra Gioia Tauro e Miami beach.

La serata delle cover, comunque, ha sempre il suo perché: il festival può smettere di fingere di non essere un talent e noi di sforzarci a memorizzare le canzoni e dedicarci al sano abbrutimento. In tema di revival, Conti ha ben pensato di proporre i Pooh, freschi freschi (si fa per dire) di reunion con Riccardo Fogli, tornato all’ovile per il mezzo secolo della band (e del fondotinta opaco) e per far sperare noi inguaribili romantiche in una reunion nelle stive dell’Ariston pure con Patty Pravo. Un bacio, una carezza, un morso alle lenzuola con la ex per poi spingersi oltre per perdersi un po’ nel backstage o, tutt’al più, per ritrovarsi in uno speciale di Paolo Limiti, grande assente della kermesse.

Se si parla di gara a trionfare è stata Napoli, gettonatissima tra i big che la partita se la sono giocata a suon di hit partenopee e tazzulille e cafè. Il premio cover ufficiale, tuttavia, è andato agli Stadio che con garbo alieno hanno omaggiato Dalla mentre i Bluvertigo, con Modugno, si preparavano all’after. E se Clementino si è difeso sfidando il pubblico radical (che il festival lo guarda, ma di nascosto) con De André, Rocco Hunt con Carosone ha «shpaccato l’Ariston».

Per l’Mc salernitano si prevede, oltre che un posto sul podio, un futuro di suonerie, remix e insulti underground. Mentre noi dovremmo accontentarci di cruising nei mercatini con i mariuoli che vendono calzini, al grido di “Wake up guagliù”.

Eros, Nicole e i bambini che fanno oh. Tutti insieme appassionatamente

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di Carla Monteforte

Strano quanto in un Sanremo che più impersonale non si può, come quello di Conti, si stia consumando una silente battaglia civile, prima che politica, di cui il presentatore stesso, suo malgrado, è regista. Ancora arcobaleni sull’Ariston e ancora famiglia protagonista del festival e ossessione dell’Italia.

Se una certa parte di pensiero aveva tirato un respiro di sollievo dopo l’intervento rassicurante del supersodomita Elton John (che, per la cronaca, una moglie l’ha avuta pure lui), ieri sera sarà rimasta spiazzata dall’ingresso a gamba tesa sulla questione delle Unioni Civili del superetero Eros Ramazzotti, nato ai bordi di periferia, al secondo matrimonio con tanto di doppia figliata e favorevole a tutte le famiglie, in prima serata su Raiuno. Favorevole persino a quella dell’altro super ospite della seconda puntata, Nicole Kidman, doppia figliata pure lei, di cui una in provetta (con uno scientologista) e motivo per cui probabilmente – se siamo fortunati – Adinolfi non pagherà più il canone e si troverà costretto a staccare la corrente elettrica alla redazione della Croce – che non sarà più online – e a diventare Amish, come Francesca Michielin che per il suo ingresso all’Ariston, nel mercoledì delle ceneri, ha reso tributo a Maria, Julie Andrew in The Sound of Music, ex suora che abbandona la clausura per unirsi in matrimonio ad un vedovo con sette figli (di cui diventerà madre a tutti gli effetti grazie alla stepchild adoption).

Del resto il musical in italiano è “Tutti insieme appassionatamente”, come le specie umane della scaletta di Conti. Tra le quali, in onore a Gasparri e la buona scuola di Renzi, anche la classe più piccola d’Italia – una maestra e due alunni – che inneggia a Povia (il cantante più piccolo d’Italia, testimonial della lotta anti-gender).

Ma il festival non è solo politica, è anche televisione per cui doveroso è parlare di talent e dei primi posti in classifica occupati dagli inviati di Amici e X Factor tra i quali, nonostante la differenza d’età con i colleghi di girone, è finito di diritto anche Elio che al televoto vince facile per il suo ruolo da giudice più che per la canzone che di sanremese ha poco ma che invece è un medley perfetto per Quelli che il calcio.

La rete impazzisce per Ezio Bosso, compositore affetto da Sla la cui presenza riesce a spegnere per un nanosecondo i fiumi di veleno riversati sui social e trasformare i cinguettatori rabbiosi in musicofili di razza.  E che quasi certamente diventerà protagonista di link e avatar di Facebook finché San Valentino non spazzerà via pure lui con una pixelata di cuori e cuori infranti. Amen.

Se nella prima serata non aveva convinto nelle vesti della Ferilli, stavolta Virginia Raffaele è geniale nelle punte della Fracci che declassa il festival a “sagra” e l’orchestra a “banda” nonostante l’apparizione, acclamatissima, di Beppe Vessicchio che entra in scena con Patty Pravo o Valerio Scanu che la interpreta a “Tale e Quale”. Non si sa.

Per il resto poca roba. Clementino portato sul palco da un ciclone abbattutosi su un centro sociale. E poi la solita Annalisa, il solito Scanu e la solita riesumazione degli Zero Assoluto, piazzati in coda perché tanto non interessano a nessuno. Come le giovani proposte, sbolognate nei titoli di testa mentre ancora gli italiani stavano ritirando capricciosa e crocchette per i centri d’ascolto.

Ma in fondo il festival della canzone italiana è soprattutto questo: il Black Friday delle rosticcerie.

 

 

Il miracolo di Sanremo

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di Carla Monteforte

Se non fosse per noi disperati bisognosi d’un cadavere per credere nel miracolo, i resti di Sanremo giacerebbero in una fossa comune ricoperti da pile interminabili di Tv Sorrisi e Canzoni, trafugati dalla sala d’attesa di un dentista confuso di paese. Sanremo è morto e quello di Conti, trasmesso ieri sera, è solo l’ologramma dei festival passati, riproposto dalla tv di Stato per tenere il popolo a bada e non fargli capire che l’Italia è finita assieme a Baudo.

Il sipario si è alzato e, ad uno ad uno, i big hanno affrontato la scaletta di Ikea, proponendo tolette ordinarie quanto gran parte delle canzoni. Una carrellata di note, stecche, schiaffi e amori falliti, ma non tanto falliti da far breccia nel cuore di noi ragazze di periferia in cerca di un lento finale in cui cadere strafatte tra le braccia di un pregiudicato durante un karaoke infrasettimanale.

Belle e brave le vallette, ma senza lode pure loro (almeno finora). Belle e brave, tranne Garko. Il redivivo attore, nonostante gli sforzi di cambiare posa e nuance di capelli, non è riuscito nell’impresa di distinguersi dalla propria sagoma di cartone. Un’imbarazzante icona da fotoromanzo rubata fuori un’edicola e piazzata sull’Ariston per acchiappare il pubblico in menopausa e quello dei maligni che continua a preoccuparsi della sua (o della propria) sessualità.

Qualche nastro arcobaleno provava a spezzare il grigiore di un teatrino insulso (testimoniando nel frattempo la barbarie di una nazione nascosta ancora dietro un dito). Tra un complimento, una televendita e un’autocelebrazione, qualcosina però si è mossa. Se ne facciano una ragione Adinolfi e tutto il resto dei cattomofobi preoccupati della piega “gender” della 66esima edizione del festival della canzone italiana. Del resto, cari democristiani, se volete un Sanremo etero-dosso non invitate Elton John e, soprattutto, la Pausini. Laura al quadrato, con tanto di giacca originale de La Solitudine, è stata il climax gaio della serata, non superato nemmeno dalla omopaternità “sbadierata” (sulla rete ammiraglia e in prima serata, cari grillini) del musicista britannico che, per il resto, si è espresso in musica e ha scelto più che un basso profilo, un profilo cristiano.

In ultimo i look. La palma da peggio vestita della serata va senza dubbio ad Arisa che ha reso omaggio alle Foibe, seguita dalla solita Noemi (in fase crociera Dukan) separata alla nascita da Irene Fornaciari che per la mise della prima serata ha reso invece omaggio a Caitlyn Jenner. Le altre tutte non classificate: impossibile ricordarle. Il grande assente dell’edizione 2016 del festival, infatti, non è stato il buon gusto, ma proprio la personalità.

Fortuna che Sanremo non è uno show ma il miracolo di San Gennaro: ogni anno il rituale si ripete tra l’ansia dei credenti preoccupati dell’esito che alla fine è sempre identico. Perché ciò che spinge noi folle ad assistervi in massa, e riunirci in gruppi di preghiera, non è Conti che dice la messa, ma solo la fede.