Teledipendenze

Life in plastic it’s fantastic. Ovvero Barbie ti odio

Ha un anno in meno di Madonna, un brevetto di volo, un camper, una navicella spaziale, un cavallo, un’orca, un panda, una zebra, una decappottabile. Nonostante parli 50 lingue – e paghi la Property tax su altrettanti immobili di lusso – è l’antesignana delle precarie con innumerevoli mansioni in cv, tutte rigorosamente a tempo determinato. In portfolio anche un Warhol, diverse controversie legali, una scappatella con un surfista, una guerra del Golfo e persino una candidatura alle presidenziali americane.

È la più grande pop star del pianeta, pioniera delle famous to be famous e delle fashion influencer (con un guardaroba da fare invidia a Gigi Hadid nel quale figurano capi di Dior, Moschino, Yves Saint Laurent e Versace).

Nata bruna si è presto convertita all’acqua ossigenata persuasasi che gli uomini preferissero le bionde (nonostante, che sposino le more, è comprovato dal fatto che dopo decenni di fidanzamento, con tanto di pausa riflessione, all’altare lei non c’è mai arrivata).

Conturbante icona di plastica, prima ancora che Dr 90210 cambiasse i connotati alle socialites di Beverly Hills, Barbie è stata sin da subito oggetto di desiderio e arma di ricatto di genitrici sadiche e spietate che costringevano la prole a lunghe e tediose maratone lungo tunnel infiniti di macellerie, Poste e banche alla cui fine pallido si faceva largo il bagliore della speranza che aveva le sembianze di Luce di Stelle, «la magia del cielo stellato nell’incanto di un abito che brilla nel buio», il top della serie anni ’80 il cui outfit (termine che allora non era manco stato coniato) illuminava di illusioni la nostra fanciullezza e pure il resto della casa, per almeno una manciata di secondi.

Ma Barbie è innanzitutto la prima donna che abbiamo amato odiare. Così magra, così milionaria, così wasp che, per non essere identificati come membri del KKK, i suoi ideatori dovettero integrarla in una società multirazziale che ne determinò il successo globale (in fatto di vendite), senza però riuscire a metterla al riparo dalle invettive delle femministe (per le quali risultava ancora troppo snella, tanto da essere sottoposta ad una cura ricostituente nel 1997), dall’ira di Allah (che nel 2003 mise al bando dall’Arabia Saudita «la bambola ebrea, simbolo della decadenza dell’Occidente»). E soprattutto dalla ferocia di noi bambine con disturbi del comportamento che, dopo pochi giorni di amore incondizionato, ci avventavamo sul nostro trofeo di platino azzannandone con rabbia prima le estremità inferiori e mettendo poi fine alle sofferenze di questa povera ragazza ricca di silicone con un’esecuzione, con sommo disappunto di tutti i bambini omosessuali per i quali Barbie era il sogno negato.

La decapitazione, però, secondo una ricerca inglese, era un vero e proprio rito di passaggio verso l’età adulta. Quella in cui, entrambi in abiti zebrati (come il primo della serie), ci saremmo rincontrate in pista con i bambini di cui sopra ad urlare «Life in plastic, it’s fantastic».

Sanremo cover, togliamoci la voglia di duetti (terza puntata)

Giro di boa fatto. Meno due alla libertà, quel giorno in cui apriranno le gabbie e torneremo nel mondo reale ad ignorare Ermal Meta e Gabbani (Che poi chi cazzo sono si è capito?) e a fregarcene di come siano finiti questi tizi nella casta che fu di Dalla e di Modugno, mentre noi stiamo ancora a commentare il festival in pigiama sul divano. Stranezze della vita, che poi è quell’intervallo che intercorre tra un Sanremo ed un altro. Un buco temporale che ti scaraventa dal ventre di Ivana Spagna alla lista saltafila Vanilla di Gigi D’Alessio.

La serata cover, c’è da ammettere, è sempre la più rilassante. A parte per gli interpreti originali che la subiscono. Come Miguel Bosé che riporterà in Puerta del Sol gli indignados dopo il remake di Zarrillo che ha trasformato in canzonetta da ferragosto in piazza a Fuscaldo quel capolavoro di “Se tu non torni”. Alcune cose dovrebbero essere vietate dalla legge. O forte proprio dai 10 comandamenti. Come un Sanremo senza cambi d’abito e marchetta allo stilista.

Sanremo uccide Sanremo. Se questo festival partiva già monco, senza vallette e corrispettive mises, adesso decide di immolare un altro elemento fondamentale della sua stessa essenza: i duetti. Eliminate entrambe le coppie composte da rapper semi(s)conosciuto e compagna non pervenuta. Che peccato! In gara, tra quelli a rischio, resta ciò che resta della Atzei dopo l’ammollo in Amuchina, la Ferreri e quel gran manzo di Clementino (per la felicità d’o rione) mentre le uniche due canzoni degne d’essere replicate in un karaoke di paese, cestinate senza pietà, come direbbe la Oxa riproposta da Paola Turci, raffinata e brava ma certamente non all’altezza dell’originale (perché, con tutto l’affetto, Anna è Anna).

Tornando al sacrificio dei duetti, con loro ci lascia l’elemento trash horror che poi è uno dei motivi per cui ci piace il festival, che non è un programma musicale – come vanno millantando quegli stolti che inorridiscono del format chiamando in causa canzoni, note e majors – ma è un sacro rituale al quale ogni volta partecipiamo per vomitare tutta la bile repressa in un anno ed uscirne così, 5 giorni dopo, persone migliori.

E intanto lento scorre il tempo verso la finale, quel giorno in cui si decreterà il vincitore, e il resto di Facebook, gli haters che lottano per boicottarci parlando anche loro soltanto di Sanremo, tornerà ad odiarci per questioni più serie. Tipo un referendum sulla bomba atomica o la finale di Amici.

 

Sanremo, la mimosa appassisce ma spuntano i limoni (seconda puntata)

 

Un Sanremo così casto non lo si vedeva dai tempi in cui Gigliola Cinquetti non aveva l’età e miagolava d’aspettare. Ma qui a furia di aspettare – che succeda qualcosa (o che scenda una fregna dalla scala) – i centri d’ascolto stanno trasformandosi in camere ardenti mentre la mimosa appassisce (e noi assieme a lei).

Per esempio, stanco d’aspettare che la festa decollasse, Robbie Williams ha pensato bene di rompere gli indugi sorprendendo Maria con un limone a centro pista, come uno studente fuori sede in preda al Tavernello durante un giovedì universitario. Ce ne fossero ancora di studenti come lui, di quelli che esci di casa come Bianca Atzei e torni che sei la Bertè, grande assente del “ Sanremo the best” della prima puntata e di tutto il festival, orfano di stile, grinta e delle sue icone. Triste come quando fai ritorno nel tuo club dopo una lunga assenza ed al posto della tua golden crew trovi un mucchio di sconosciuti promossi a “big” che ancheggiano nei loro acrilici da due lire e ti ricordi perché invece di uscire resti a casa a guardare Sanremo.

Triste come crescere mentre la tv invecchia.

A proposito di vecchiume, una parentesi andrebbe aperta, e subito richiusa, sui comici che non fanno ridere ma che mettono voglia di passare canale e a miglior vita sottoponendosi ad una maratona Ėjzenštejn: perché a Conti fatti la cosa migliore del festival resta sempre la controprogrammazione. Chissà perché poi il meglio della settima arte viene sempre fuori mentre Chiara sta spirando sul palco dell’Ariston senza essersi fatta lo shampoo? E chissà perché nessuno trova più opportuno lavarsi i capelli prima di prender parte al corrispettivo italiano del Super Bowl americano? Lo spazio tv più pagato dagli sponsor e più seguito dai teledipendenti.

Bah, misteri della fede.

Come quelli che ci tengono incollati al divano a cercare di capire chi cazzo sono Raige e Giulia Luzi mentre là fuori un Erasmus strafatto di San Crispino aspetta solo di beccarci in fila al bar come Giorgia. E farci tornare a casa come la Rettore.

Sanremo senza vallette? Maria, chiudi la busta

 

 

Come un branco di leoni affamati aspettavamo Sanremo per sbranarci i protagonisti ad uno ad uno e sedare il nostro appetivo represso vomitando le nostre frustrazioni sulle vite (e gli abiti) degli altri, ed invece, invece delle carni e del sangue, abbiamo avuto in pasto un pasticcone di melatonina servitoci da Maria in abito da ricovero e Carlo Conti pronto per l’imbarco a Malindi.

È stata dura ma alla fine ce l’abbiamo fatta a rimanere sveglie alla scaletta di Telethon spacciata per Sanremo. Sì, perché Sanremo è Sanremo non è Pomeriggio 5 dove tra uno stacchetto e lo spot di Coconuda trovano spazio eroi e morte. Troppo lunghi i momenti di tv-verità e troppo male inseriti in un format dove a stento trova spazio la musica.

Detto questo, ciò che più è mancato nella prima serata del programma “delle larghe intese” – come ha giustamente detto Crozza prima di servirci il colpo di grazia – sono le vallette. Sanremo è come la messa: senza chirichetti non si canta. Ed i sanremesi sopravvivono al susseguirsi delle edizioni (e dei conduttori) bramosi di scandali e spacchi da deplorare. Di taglie 38 da fare a pezzi a suon di radiografie e abiti inguinali per i quali invocare il comune senso del pudore e la morale. Parliamoci chiaro: un festival senza signorine discinte e lascive che ammiccano dalle scalinate leggendo a fatica il gobbo (peggio di Maria) non è un festival. Fortuna che sul finale, quando i bambini già erano a nanna, Conti ha fatto scendere le scale a Diletta Leotta, fresca di video hard e per questo promossa all’Ariston (come Paris, come Kim).

Ma quello iniziato ieri è stato in assoluto il festival delle ragazze anni ’90 che agguerrite ancora attendevano l’avvento di Ricky Martin e del suo movimento pelvico che 20 anni e passa prima le aveva introdotte agli ormoni. E 20 anni e passa dopo alla disperazione placata, per fortuna, da Tiziano e dalla sua compagna Carmen Consoli la cui hit, la più cantata da donne quarantenni in crisi e omosessuali bloccati nel traffico, ha dato Conforto all’angoscia e reso divertente l’esaurimento. Di una vita ancorata ai poster di Cioé e di un festival da chiudere la busta e rifugiarsi in un’altra depressione.

Bowie, biochetasi e tempi di ripresa brevissimi

FESTIVAL DI SANREMO 1997 – NELLA FOTO DAVID BOWIE OSPITE AL FESTIVAL

Sono passati 20 anni. Il 1997 l’attesa era grande: Mike presentava un grande Sanremo e Bowie cantava Little Wonder, colonna sonora di un periodo felice e fondamentale della mia giovinezza e della mia vita intera. Il 2 luglio dello stesso anno l’avremmo visto a Pistoia. Io la mattina della partenza avevo la febbre alta ed un’intossicazione in corso. Mi svegliai nella mia casa di via Cremona 59, Roma, in delirio e con Maura, più in delirio di me, che mi saltava sulla pancia convinta fosse il giusto metodo per farmi riprendere. Alla fine come Lazarus resuscitai e partimmo. 
Ogni giorno quando la vita mi sembra schifosa dovrei ripensare a quella mattina e al fatto che non importa se e quanto stai male, l’importante è avere tempi di ripresa brevissimi.

La caduta di O.J. Simpson e la nascita di Kim Kardashian


Racconta la genesi delle Kardashian, in sintesi, The People v. OJ Simpson, regine dei social che probabilmente oggi sarebbero delle perfette sconosciute senza quel seguitissimo reality, datato 1994, che fu l’omicidio di Nicole Brown e Ronald Goldman da parte del campione di football afroamericano, di lei marito, protagonista di “The Bronco Chase” (la tentata fuga in autostrada con tanto di inseguimento dell’intero corpo di polizia di Los Angeles e dei maggiori network degli States che lo trasmessero in diretta TV h24 con un seguito di 100 milioni di telespettatori), e che prima di finire dietro le sbarre, circondato da celebrieties e vicini Wasp, nero non si era sentito mai.

 
La prima stagione di American Crime Story, costola di American Horror Story (stessa matrice, stesso autore), si concentra sulla vicenda mediatica, prima che giudiziaria, di The Juice ma soprattutto del suo “dream team”, un pool di avvocati di lusso, tra i quali si fa strada l’amico di sempre del running back ed allora sconosciuto ex marito di Kris Jenner, Robert Kardashian.

 
La serie, di cui finora sono state trasmesse quattro puntate, narra l’odio razziale della Los Angeles degli anni ’90 (su cui si fonda tutta la difesa), la nascita dei processi mediatici in cui innocenza e colpevolezza si designano in conferenza stampa, avvocati e pubblici ministeri superstar e vittime relegate a ruoli marginali della loro stessa morte.
Ma soprattutto racconta la caduta di un mito, O.J., e la nascita di un altro, Kim. Perché senza quel sacrificio a Brentwood, oggi, non esisterebbe nemmeno il contouring.

 

P.S.
Da vedere assolutamente in lingua originale per i seguenti motivi:
1) per godere dell’interpretazione a denti stretti di un sublime John Travolta (nei panni dell’avvocato Bob Shapiro)
2) per non perdersi la voce roca e la metrica di Cuba Goodinf Jr (O.J. Simpson)
3) per desiderare un’ultima sigaretta prima della sedia elettrica assieme alla procuratrice Marcia Clark (Sarah Paulson)

Sanremo. Incontri ravvicinati con uno Zero

di Carla Monteforte

La cosa più bella di questo Sanremo è che finalmente è finito e possiamo tornare a piede libero.

Dopo cinque giorni di domiciliari arriva la conferma che, con la riforma elettorale del Governo Conti, pronostici sui vincitori non se ne possono fare e che se fino ad un paio d’anni fa c’era rimasta qualche certezza adesso siamo precari pure all’Ariston.

Nonostante le Cassandre lo avessero annunciato, infatti, chi aveva mai creduto alla possibilità che una a cui pure lo stilista ha ritirato gli abiti poteva conquistare il podio? (Preceduta da una reduce del precetto pasquale) Assurdo.

Assurdo almeno quanto i tre quarti d’ora di monologo di Renato Zero che, dopo aver cavalcato l’Onda gay tra i ’70 e gli ’80 (con non pochi profitti), nel festival Arcobaleno si presenta vestito a lutto per celebrare la morte di se stesso. Silenzio sulle unioni civili, non una parola sulla stepchild adoption (nonostante un’adozione da single datata 2003), se non uno strambo riferimento a taluni “alieni”, forse metafora democristiana di “omosessuali”. Fa bene la Bertè a non parlargli più.

Il videomessaggio di Loredana che saluta Patty da Niagara Falls (la quale, grazie all’auspicio, incassa il premio “Mia Martini”), è stato il momento cult dell’ultima puntata e dell’intero Festival. Anche perché altri non ce ne sono stati.

Superospiti della porta accanto, giullari di corte, abiti da grandi magazzini. L’alta moda è stata la grande assente di questa edizione in cui forte si è sentita la mancanza delle dive sanremesi che di grazia felina illuminavano la scalinata, in Versace fasciate.

Una carrellata di femmine goffe e dai capelli unti si sono alternate facendo sospirare la frangetta bombata di Fiordaliso, il riccio jungle di Marcella Bella e persino il rosso Flavia Fortunato. Perché Sanremo si nutre di orrido, ma di orrido che muta in poesia.

Per il resto, compresa la vincitrice (degli Stadio), gran parte delle canzoni sono già belle e dimenticate. A parte quella di Rocco Hunt che troverà riscatto in feste patronali e auto smarmittate a Scampia; quella di Arisa (identica alle precedenti). E quella di Bernabei con la quale, se saremo così sfortunate da sopravvivere, assisteremo all’esaltazione in pista dei più squallidi esemplari femminili, ogni qual volta un dj della costa, trasmettendola, deciderà di rimarcare quanto fa schifo il posto in cui suona e il mondo dove vive.

Un mondo in cui Cristina d’Avena è acclamata special guest a furor di web; in cui a decretare il vincitore del festival non è più il televoto (ma un Parlamento di nominati); in cui uno che ha scritto una canzone che si chiama “L’altra sponda” si converte alla parrocchia. Un mondo in cui per festeggiare un altro Sanremo tocca aspettare il 2017.

Dolcenera, Annalisa, Belen. È il festival delle schiaffo

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La quarta puntata di Sanremo è stata figa come una festa in cui tutti sono ubriachi mentre tu non puoi farti manco uno shottino perché hai iniziato la dieta. Resti perché è un impegno preso ma nel mentre sogni di fare un bagno in una vasca di Campari, come Morgan. O come Belen che, dopo l’apparizione di Virginia Raffaele (e del suo stacco di coscia) ha provato ad affogare la bile nella schiuma. E, fallito il tentativo, ha optato per la superiorità postando un frame delle tube di falloppio della copia, con complimenti annessi. Un grande schiaffo morale!

E non è stato l’unico, perché lo schiaffo è il vero trionfatore della 66esima edizione del festival. Un sempreverde dell’hairstyle sanremese, adottato di sera in sera da tutte le concorrenti: da Noemi ad Irene Fornaciari passando per Annalisa e Dolcenera che, per essere più extreme ’80, ha dormito pure con schiuma e inventaricci, facendosi svegliare un secondo prima di sedersi al piano, ancora in stato catatonico. Beata lei.

Non è successo proprio niente in questo venerdì rubato alla vita sociale ed investito in quella social. Non una gaffe, non un precario che tenta il suicidio, manco uno straccio di allarme-bomba. Niente di niente. Neppure un pederasta con utero in affitto imbarcatosi dalla moderna Bretagna per minacciare la famiglia tricolore. Tanto che ad un certo punto qualcuno degli autori, temendo il calo di ascolti, ha pensato di rivolgersi al pubblico di Buona Domenica annunciando come super ospiti i due Marò. O qualcosa del genere. Ma i due soldati hanno chiuso la busta perché di italiani fuori concorso ce n’erano già troppi.

Superstar della semifinale una padana: Elisa. E la notizia non è che dal suo ultimo shampoo saranno passati non più di quattro giorni ma che, se a finire nel ruolo che fu di Madonna, Bowie e Simon Le Bon, ce l’ha fatta una senza smalto allora ce la possiamo fare tutte. Anche Debora Iurato in H&M. Sebbene tutto questo orgoglio patriottico sia contro tutte le regole del festival della canzone italiana, caro Conti.

Nato negli anni Cinquanta, quando gli italiani, usciti da due guerre, sognavano l’America di cui Elvis divenne incarnazione e dalle cui costole nacquero Bobby Solo e Little Tony, Sanremo l’esterofilia ce l’ha proprio nel dna. Come noi. Per cui, signor direttore artistico, l’anno prossimo si ricordi di investire due spicci in una bella boyband da crisi isterica. Perché senza, non possiamo sognare una terra promessa e nemmeno un mondo diverso.

 

 

 

Sanremo cover. Tra imitazioni e tarocchi trionfa Donatella

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di Carla Monteforte

La terza puntata di Sanremo l’ha vinta Donatella Versace, the original, che dalla pagina ufficiale della maison ha invitato la sua imitatrice (Virginia Raffaele) a farle da controfigura, non prima, però, di essersi circondata da uno stuolo bonazzi e fatta una piega da urlo. Ma Donatella è Donatella, non c’è Raffaele che tenga, la quale, tra le altre cose, può solo ringraziare la vera della confidenza ricevuta e di essere ancora viva e vegeta invece che incaprettata in un container tra Gioia Tauro e Miami beach.

La serata delle cover, comunque, ha sempre il suo perché: il festival può smettere di fingere di non essere un talent e noi di sforzarci a memorizzare le canzoni e dedicarci al sano abbrutimento. In tema di revival, Conti ha ben pensato di proporre i Pooh, freschi freschi (si fa per dire) di reunion con Riccardo Fogli, tornato all’ovile per il mezzo secolo della band (e del fondotinta opaco) e per far sperare noi inguaribili romantiche in una reunion nelle stive dell’Ariston pure con Patty Pravo. Un bacio, una carezza, un morso alle lenzuola con la ex per poi spingersi oltre per perdersi un po’ nel backstage o, tutt’al più, per ritrovarsi in uno speciale di Paolo Limiti, grande assente della kermesse.

Se si parla di gara a trionfare è stata Napoli, gettonatissima tra i big che la partita se la sono giocata a suon di hit partenopee e tazzulille e cafè. Il premio cover ufficiale, tuttavia, è andato agli Stadio che con garbo alieno hanno omaggiato Dalla mentre i Bluvertigo, con Modugno, si preparavano all’after. E se Clementino si è difeso sfidando il pubblico radical (che il festival lo guarda, ma di nascosto) con De André, Rocco Hunt con Carosone ha «shpaccato l’Ariston».

Per l’Mc salernitano si prevede, oltre che un posto sul podio, un futuro di suonerie, remix e insulti underground. Mentre noi dovremmo accontentarci di cruising nei mercatini con i mariuoli che vendono calzini, al grido di “Wake up guagliù”.

Eros, Nicole e i bambini che fanno oh. Tutti insieme appassionatamente

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di Carla Monteforte

Strano quanto in un Sanremo che più impersonale non si può, come quello di Conti, si stia consumando una silente battaglia civile, prima che politica, di cui il presentatore stesso, suo malgrado, è regista. Ancora arcobaleni sull’Ariston e ancora famiglia protagonista del festival e ossessione dell’Italia.

Se una certa parte di pensiero aveva tirato un respiro di sollievo dopo l’intervento rassicurante del supersodomita Elton John (che, per la cronaca, una moglie l’ha avuta pure lui), ieri sera sarà rimasta spiazzata dall’ingresso a gamba tesa sulla questione delle Unioni Civili del superetero Eros Ramazzotti, nato ai bordi di periferia, al secondo matrimonio con tanto di doppia figliata e favorevole a tutte le famiglie, in prima serata su Raiuno. Favorevole persino a quella dell’altro super ospite della seconda puntata, Nicole Kidman, doppia figliata pure lei, di cui una in provetta (con uno scientologista) e motivo per cui probabilmente – se siamo fortunati – Adinolfi non pagherà più il canone e si troverà costretto a staccare la corrente elettrica alla redazione della Croce – che non sarà più online – e a diventare Amish, come Francesca Michielin che per il suo ingresso all’Ariston, nel mercoledì delle ceneri, ha reso tributo a Maria, Julie Andrew in The Sound of Music, ex suora che abbandona la clausura per unirsi in matrimonio ad un vedovo con sette figli (di cui diventerà madre a tutti gli effetti grazie alla stepchild adoption).

Del resto il musical in italiano è “Tutti insieme appassionatamente”, come le specie umane della scaletta di Conti. Tra le quali, in onore a Gasparri e la buona scuola di Renzi, anche la classe più piccola d’Italia – una maestra e due alunni – che inneggia a Povia (il cantante più piccolo d’Italia, testimonial della lotta anti-gender).

Ma il festival non è solo politica, è anche televisione per cui doveroso è parlare di talent e dei primi posti in classifica occupati dagli inviati di Amici e X Factor tra i quali, nonostante la differenza d’età con i colleghi di girone, è finito di diritto anche Elio che al televoto vince facile per il suo ruolo da giudice più che per la canzone che di sanremese ha poco ma che invece è un medley perfetto per Quelli che il calcio.

La rete impazzisce per Ezio Bosso, compositore affetto da Sla la cui presenza riesce a spegnere per un nanosecondo i fiumi di veleno riversati sui social e trasformare i cinguettatori rabbiosi in musicofili di razza.  E che quasi certamente diventerà protagonista di link e avatar di Facebook finché San Valentino non spazzerà via pure lui con una pixelata di cuori e cuori infranti. Amen.

Se nella prima serata non aveva convinto nelle vesti della Ferilli, stavolta Virginia Raffaele è geniale nelle punte della Fracci che declassa il festival a “sagra” e l’orchestra a “banda” nonostante l’apparizione, acclamatissima, di Beppe Vessicchio che entra in scena con Patty Pravo o Valerio Scanu che la interpreta a “Tale e Quale”. Non si sa.

Per il resto poca roba. Clementino portato sul palco da un ciclone abbattutosi su un centro sociale. E poi la solita Annalisa, il solito Scanu e la solita riesumazione degli Zero Assoluto, piazzati in coda perché tanto non interessano a nessuno. Come le giovani proposte, sbolognate nei titoli di testa mentre ancora gli italiani stavano ritirando capricciosa e crocchette per i centri d’ascolto.

Ma in fondo il festival della canzone italiana è soprattutto questo: il Black Friday delle rosticcerie.