Party girls interrotte – My fucking quarantine diary (part I)

Non ce la faccio a dormire. Stasera, come molte altre che l’hanno preceduta, mi sono dedicata all’esercizio della memoria ripercorrendo pezzi di vita felice attraverso foto e video custoditi nella mia scatola nera, l’iPhone.

In questi giorni ho spesso la terribile sensazione di essere un puzzle smontato in mille pezzi e con disciplina provo a ricomporlo cercandomi nei frame del passato recente. Il mio viaggio nel tempo mi riconduce puntualmente nei meandri nella notte: per ricordarmi chi sono ho sempre l’esigenza di rivedermi truccatissima, lasciva, agguerrita, con musica assordante e drink in mano. Tra le tante me stesse che ho perso questa è quella che mi manca di più.

È sabato, un altro perso, un altro guadagnato.

Il silenzio che mi circonda contrasta la tempesta che sento dentro immaginando il rumore del ghiaccio che sbatte nel vodka tonic che mando giù durante la festa che si consuma nella mia testa.
Ho deciso di non sentirmi in colpa nei sempre più rari momenti in cui faccio spazio alla vita in mezzo a tanta morte.

Tutta questa morte intorno mi stringe il petto e mi accorcia il fiato. Non ero preparata ad essere una sopravvissuta. Eppure tante volte mi sono sentita superstite di me stessa e questa è un’altra nota assurda di questa vicenda: ho sempre creduto sarebbe stata la mia vita ad ammazzarmi, ma mai che mi avrebbero sepolta viva.

Se è vero che non prenderemo più aerei, il mio jet privato stanotte è volato a Miami. Ho un vestito troppo sbottonato sul davanti e avanzo per la Washington in cerca di guai.

(Apro una parentesi: se un giorno doveste cercarmi, come sto facendo io stanotte, provate prima al bar e poi dove c’è aria di marcio: lì mi troverete certamente)

La notte di Miami Beach è un abito che a gran sopresa mi veste alla perfezione: mi fa sembrare bella ed elegante persino. La gente che conta è subito ai miei piedi: pusher e buttafuori mi amano, le chiavi del paradiso sono mie. Il lusso pornografico dei clubbers ci fa sembrare tanto italiani, ma per una volta nel senso buono. Pensano che siamo gente di classe, li abbiamo fregati!

(Altra nota: se andate da quelle parti ricordatevi sempre di portare con voi un amico che si sente Gianni Versace)

Per strada tutti ci fermano, o siamo noi che fermiamo tutti, mica l’ho ancora capito.

Ogni passo un tuffo in un’altra vita. La gente ci regala un tour di qualche minuto nella propria esistenza. È meraviglioso. Ogni persona è una scatola cinese che ci conduce alla successiva. Amo gli sconosciuti.

Gli sconosciuti sono le persone che più mi mancano in questo isolamento. Non che non pensi alle braccia di un amico in cui sprofondare disperatamente, ma nel mio labirinto la ricerca di pensieri felici riconduce sempre al vicolo cieco della gente a caso.

Vivo isolata da un mese e provo alienazione dal mio stesso corpo. Lo sento altro da me, come fosse vuoto e dentro s’udisse l’eco generatasi dallo spazio lasciato vuoto dalla mia anima. Il mio spirito vaga tra l’Ade e le discoteche in cui ho trascorso tre quarti della mia esistenza che probabilmente dagli inferi, poi, non sono cosi  differenti.

Questo pensiero risveglia inevitabilmente nei miei ricordi il mito di Orfeo e Euridice che in effetti è la trasposizione letteraria del mio dilemma precedente: se sono uscita illesa dalle notti di Testaccio ho buone possibilità di uscire viva pure da questo di inferno. Vedremo.

Nel frattempo l’idea di essere stata surgelata come un bastoncino di merluzzo torna ad abbassare la temperatura del mio sangue: è primavera e ho freddo. Ho i piedi sempre gelidi da quando mi hanno internata. Se chiudo gli occhi però sento il vento caldo dell’Ocean Drive: è l’Atlantico che mi regala una carezza per convincermi ad addormentarmi.

È tardi e forse adesso ho sonno. Rimanderò i tormenti a domani con un’unica conclusione: se dovessi non farcela portate a spasso le mie ceneri con Uber pool e scrivete nel mio epitaffio “She’s in parties”.