Thank you and goodbye, Milos Forman

 

 

Dio solo sa quanto Milos Forman sia stato importante nella vita mia e delle mie sorelle. Perché ci sono artisti che non segnano semplicemente la tua esistenza ma hanno proprio un posto alla tua tavola e fanno colazione con te.

Da bambine mentre i nostri coetanei buttavano un occhio sui cartoni preparando la cartella prima di andare in classe noi infilavamo ogni mattina la stessa cassetta nel videoregistratore sistema Beta per guardare uno spezzone qualsiasi di Amadeus, assieme a papà, che assieme a tutto il resto ci stava iniziando ad essere delle “cultrici”. Delle compulsive (e delle specie di stalker di lusso pure).

Una forma di ossessione monomaniacale, quella nei riguardi del film sulla rivalità tra Mozart e Salieri (il talento sregolato che si misura contro la mediocrità imperante), paragonabile solo a quella per i capelli, croce e delizia di tutta la mia vita. Un tormento che mi avrebbe accompagnato dalle scuole elementari – quando la maestra preoccupata dovette chiamare mamma a rapporto perché ogni testo libero che mi assegnava puntualmente veniva dedicato alle mie chiome – fino ad adesso che, quarantenne, ancora mi flagello per ogni cm reciso. E qui la chiudo perché potrei diventare davvero pesante, e non è il caso.

Ma del resto che ci posso fare se da ragazzina mentre gli altri cantavano Creamy, noi ci sgolavamo urlando “HAIR! Flow it, show it, long as God can grow it, my hair!” sognando di scuotere ciocche chilometriche in sella a un cavallo bianco a Central Park per poi finire a ballare su una tavola perfettamente imbandita indossando pantaloni a zampa innanzi ad un pubblico di snob scandalizzati?

E questa malattia chiamata Forman – e chiamata forse anche mancanza di senso del pudore – non guarì certo in adolescenza quando al concerto della scuola Maura ed io, che più che popolari eravamo delle freak, incuranti del bullismo e degli snob scandalizzati di cui sopra, ci presentammo sul palco dell’Auditorium del liceo classico “Bernardino Telesio”, cantando “Aquarius” e “Let the sunshine in”. Che ci fregava a noi di sembrare strane? Lo eravamo! E ci sentivamo pure giuste – innanzi allo sguardo allucinato dei più – ma così giuste che forse proprio allora, per il mondo, diventammo “le sorelle Monteforte”.

Noi che sognavamo l’America e che l’America la mettevamo in scena in casa tutto il giorno, tutti i giorni. Grazie a papà che invece di farci sognare un marito e un impiego in banca ci immaginava a dare i numeri alla scuola d’arte di New York. Per lui non eravamo delle figlie, eravamo delle superstar. Sempre in bilico tra genio e sregolatezza che questo divenne il tema della mia tesi di laurea. Ovviamente su Forman! “Da Caslav ad Hollywood”.

L’esule più famoso dell’industria cinematografica americana che dopo aver combattuto il regime del suo paese attraverso la Nova Vlna –  la primavera del cinema cecoslovacco – lasciò l’Europa per rifugiarsi all’ombra della Statua della Libertà.

Uno come lui – che aveva mosso i primi passi in un contesto in cui il cinema era la più importante forma di propaganda – in America era proprio il cuculo che depone le uova nel nido di altri uccelli. Un infiltrato. Non a caso “One flew over the cuckoo’s nest” – che appunto di un infiltrato raccontava (in un’ospedale psichiatrico) – fu la pellicola che lo consacrò al grande pubblico. E che consacrò noi al borderline tanto che di lì a poi di pazzi criminali e di Jack Nicholson ne avremmo collezionati parecchi. Ma stendiamo un velo pietoso.

In fondo – come Forman e come R.P. McMurphy – nella cittadina in cui siamo nate e cresciute eravamo un po’ delle infiltrate pure noi, troppo piccola, a volte, per contenere tutte le nostre megalomanie. Troppo stretta per la nostra esuberanza e pure per le nostre stramberie.

Di scandali infatti ne abbiamo dati parecchi, per fortuna. Noi che in un luogo dove si entra solo in lista coppie incedevamo come Courtney Love che in “Larry Flynt – Oltre lo scandalo” è Althea, moglie dell’eccentrico fondatore di Hustler, una rivista per soli uomini che fece letteralmente saltare dalle sedie i puritani. Ancora una storia, questa raccontata da Forman, di eccessi, personaggi maledetti ma soprattutto di censura. Un film su un Paese che tuttora si proclama libero ma che è spaccato tra emancipazione e moralismo. Un film sulla libertà d’espressione che sarebbe dovuto essere un vero proprio reminder nei miei anni da giornalista in Calabria, in cui di puritani e censori ne ho incontrati e ce ne sono ancora troppi.

Oggi che non ci sei più, Milos Forman, mi piace immaginarti sulla luna. Vicino ad Andy Kaufman. Ovviamente a fare Karaoke assieme a noi che ci beviamo le lacrime singhiozzando “This friendly world”. Perché nonostante tutto “il mondo è un posto meraviglioso per vagarci dentro”.


Grazie di tutto.
Grazie per averci fatto vivere nella presunzione di essere dei geni anche quando probabilmente eravamo solo dei disadattati.

Thank you and goodbye.

Carla Monteforte