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Natale a Cosenza. Cronaca di una morte annunciata

 

Non so voi ma io sono super felice di rivedervi. Fosse solo che, se sono qui con voi, significa che non sono più a Cosenza. Quel posto sperduto che Dio ha ficcato tra la Sila e il Tirreno che mi ha dato i Natali e che ogni Natale prova a farmi fuori.

Sono una ragazza di provincia io. Una di quelle che prima di tornare a casa ha già appuntamento per ceretta e semipermanente fissato da settimane e una scuderia di amanti storici scalpitanti perché Dolly torna in città. Il problema è uscirne viva poi.

Sono cattolica: a me il Natale piace santificarlo. Con un revival di problemi vecchi e un dramma tutto nuovo di cui pentirmi e dolermi in vista della Quaresima.

Come si fa a sentire l’aria delle feste senza i botti?

Da noi Natale sembra la Siria. Fuochi d’artificio e colpi d’arma da fuoco tagliano il cielo della città e annunciano che Gesù Bambino è nato e che a via Popilia è arrivata la coca. Ne cade tanta di neve nel presepe e nei nasi, per festeggiare l’avvento di nostro Signore. Quel periodo in cui gli emigrati rientriamo ad Itaca e con i cappotti impregni di fritto vaghiamo per le strade che ci hanno partorito in cerca di antichi sapori e nuove malattie veneree. Del resto io sono una tradizionalista e per me Natale non inizia fin quando, prima di avventurarmi in un posto, non devo mandare un inviato in perlustrazione per capire se la mia vita è in pericolo o meno.

Quant’è bello sentirsi a casa!

Gente di cui ti vergogni, e che non vedi da decenni, che ti si siede a fianco mentre tenti di far colpo su quello che ti piace, e pretendechiarimenti su una vostra relazione immaginaria, chiedendo lumi sui motivi dell’immaginaria rottura.

Stupendo no?

Il buttafuori del locale, dove per una volta stai fingendo di essere una persona perbene, una professionista stimata che commenta il suo ultimo editoriale politico con un lettore interessato che la stima, che ti bombarda di Whatsapp chiedendoti di raggiungerlo nel vicoletto.

(Tu ovviamente non vai e soffende pure!)

I poliziotti in pattuglia che ti fermano mentre passeggi, come se camminare ubriaca fosse un reato, ma invece di arrestarti ti molestano.

Adel che la notte di Capodanno ti scorta dal portone di casa fino in pieno centro dicendoti che vuole portarti con lui in Marocco perché sei troppo bella ma ad una certa è costretto a voltarsi perché per inseguirti ha dimenticato la droga ed era uscito per lavorare.

Che belle le città piccole!

Quei luoghi incantati dove fuggi per cercare riparo dal caos delle metropoli per ritrovarti in pochi metri quadri, senza via d’uscita,con la persona da cui davvero eri scappata: te stessa. Più madre, sorelle e spirito santo che in occasione delle feste ripassano il repertorio dei santi mentre riversano valanghe di zucchero e grassi saturi su mesi di regime proteico.

Mamma aveva due interventi alle mani già fissati col chirurgo per i primi di dicembre: li ha disdetti doveva farsi i dolci di Natale. Non si fidava. La Vigilia, non contenta, ha infornato pure una pastiera.

La piaga sociale della Calabria non è la disoccupazione, il racket, le ndrine, ma sono i picchi glicemici da cui certamente ha origine tutto questo. La corruzione, la fuga dei cervelli, lo spopolamento, la Lega primo partito in regione, tutto nasce dalle massicce dosi di glucosio a cui siamo sottoposti come fossimo cavie di un misterioso esperimento divino e che siamo costretti a smaltire come cavalle imbizzarrite: galoppando a braccetto con i nostri stalker.

Gli ex, per i quali avevamo fatto in fretta e furia le valigie imboccando a rapina la SaRc, che ti ripropongono le loro palle addobbate a festa con la scusa del Santo Natale e che dobbiamo essere tutti più buoni. Cosi buoni che ci si sono aperti tutti i chakra e dentro ci si è infilato persino il vigilantes di Cetraro che alle 3 di una notte gelida di gennaio, dopo un mezzo limone, telefonava a un club di scambisti per sapere se era aperto.

Casa dolce casa.

Quel posto in cui torni leggiadra come sulla scena di un crimine e da cui scappi via come un ricercato con una taglia sulla testa.

Per fortuna passa tutto: la novena, i fritti, la famiglia riunita che ti prepara all’Iran. E una volta lontana, del Natale restano solo gli accumuli di grasso, i sensi di colpa e un non meglio identificato che continua a chattarti: “Hai capito chi sono?”.

“Senti bello, sono cattolica io! Per n’altra croce adesso ci vuole Pasqua!”

 

La notte della neve

Amo spiare la notte impossessarsi di Roma come un master che immobilizza la preda per infliggerle ore di torture e godimento. Che poi sono la stessa cosa.

Quando il buio cade sulla vecchia matrona la gente perbene cerca riparo nelle proprie tane mentre dai tombini come i ratti usciamo noi.

Quanta inquietudine sotto uno stesso cielo. Quanta inquietudine sulle sponde del Tevere che incurante scorre senza sosta assieme alla vodka e alle illusioni che ogni minuto si frantumano come calici da vino di Ikea.

La notte e Roma sono sadiche e imprevedibili come i pacchi di un programma per pensionati e casalinghe in cui chi se ne va sconfitto ha come premio di consolazione anche sensi di colpa a pacchi. Perché la fortuna, così come la colpa, non avviene mai a caso. In quelle scatole strette in mano da ignoti d’ogni dove puoi trovarci di tutto mentre saltelli tra il bancone ed il bagno stringendo tra le dita l’ultima sigaretta ed un bigliettino col tuo numero da ficcare nelle tasche del buttafuori così gentile da non averti ancora sbattuto fuori a calci.

Ma è quando tutti i segni divini e le congiunzioni metereologiche e astrali suggeriscono prudenza, di restare in casa chiuse a molteplici mandate, che bisogna cogliere la sfida e lanciarsi nella brughiera in cerca di un Heathcliff o semplicemente di tempesta.

Una notte, tra i tanti sconosciuti che attraversano la capitale e la mia vita senza lasciare traccia, arrivò la neve. Visitatrice esotica e annunciata ma non per questo meno prodigiosa o sorprendente.

Assieme alla neve arrivò lui, l’uomo della neve. Un forestiero dai lunghi capelli portato dalla bufera. Un brivido caldo levatosi dai sanpietrini ibernati.

Uno sguardo ed ero sua, sciolta come un ghiacciolo che annega in una Jacuzzi. D’un tratto tutti gli Harmony rubati dai cassetti di mia madre erano lì, materializzati in carne, ossa e vodka tonic, nel cuore di una Trastevere polare. Nel cuore di una Trastevere bollente.

Ecco perché amo le intemperie, la pioggia, il vento, i tombini intasati, la grandine, perché fanno pulizia di tutta la gente inutile – imbottitura sociale, figuranti – lasciando spazio a noi: i peggio. E facendo posto ai marinai di passaggio. Quelli che ti seducono e poi si dissolvono come neve a Roma.

Nulla è eterno nella città eterna. Nemmeno un respiro che sembra infinito ed invece è solo un fermo immagine di un regista annoiato che fa prove tecniche coi tuoi polmoni.

Del resto cosa ci si può aspettare da un luogo in cui la storia è già stata scritta tutta? Un capitolo nuovo? Non certo una morale. Perché chi è in cerca di morale non scende certo a Termini.

E col fiato ancora sospeso, inebriata di desiderio e Beluga, mi ritrovo ancora una volta sola a proseguire il mio cammino verso l’ignoto per i vicoli ghiacciati, mentre Ponte Sisto mi guarda incredulo ed un magrebino insegue la mia ombra giurando amore eterno.

Eterno come una promessa nella città più bugiarda del pianeta.

Carla Monteforte