Esquilino mon amour

Quando sono inquieta vado a piazza Vittorio. Sento una specie di richiamo ancestrale per questo non luogo che è una terra di nessuno e quindi pure la mia. Mi sento un frammento tra altri frammenti in cerca di chissà che. Di qualcosa. Di un’identità. E quasi sempre me ne torno a casa senza alcuna risposta ma piena di buste colme di stoffe e cianfrusaglie di nessun valore economico ma che per me sono fondamentali per comporre il puzzle sparpagliato che è la mia vita. Che sono io.

La mia giornata all’Esquilino è una via Crucis. Prima stazione: piazza San Giovanni, via Sannio. Un posto che non si fila quasi più nessuno e nel quale non trovo quasi mai nulla a parte me stessa diciottenne che vaga tra i banchi in cerca di chissà quale derelitto. Non è cambiato molto da quando indossavo anfibi che adesso sono in vendita nel reparto vintage. Sono vintage anche io, mi sa. Forse sono proprio il derelitto che cercavo quando col walkman alle orecchie frugavo tra i Loden infeltriti. Eppure resto una spettatrice in ritardo che vaga in un’enorme sala in cui tutti sembran aver preso posto a inizio film, tranne me.

Dopo aver lasciato un acconto per una pelliccia di volpe anni ’80 che non posso permettermi, che mai indosserò e che nemmeno mi va – ma che secondo Tiziana è l’affare del secolo (il suo) – piena di dubbi e sensi di colpa me ne vado a piedi verso la Mecca, attraversando viale Manzoni e risalendo verso il luogo dove prima era Mas e che adesso sembra il cimitero monumentale degli accumulatori seriali a cui non dimentico di rendere omaggio. Sono accolta da un ammasso di vecchie saracinesche abbassate e insegne non funzionanti che danno un’aria spettrale e al contempo irresistibile alla Babele di Roma. Mentre ad intermittenza le gemme e gli strass dei bangladini brillano dai cesti di plastica sin fuori le vetrine creando in me un senso di enorme eccitazione. Dando luce al mio cuore in penombra.

Chissà perché in questo perimetro così decadente io mi sento tanto io? Viva come come i tessuti sgargianti del Mercato Esquilino che io e le nigeriane non riusciamo a smettere di toccare, sotto lo sguardo di disappunto dell’indiana che li vende. Mentre il giovanotto africano del banco concorrente farebbe di tutto per piazzarmi la sua di mercanzia…

E poi, puntuale, arriva il momento più aulico della processione dei reietti: la sensazione che qualcuno ti stia inseguendo. Ed in effetti qualcuno mi sta inseguendo sul serio: se così non fosse non sarebbe piazza Vittorio. Il posto dove tutti cercano qualcosa e per qualcuno quel qualcosa sei tu. Almeno per qualche centinaio di metri. Almeno fin quando sui banchi non si manifesta un affare più conveniente, un ribasso o un prodotto più esotico.

È Chinatown bellezza: il luogo dove siamo tutti in vendita. Tocca solo stabilire il prezzo di partenza e quello a cui siamo disposte a scendere pur di sentirci volute, desiderate, possedute.

Ma chi lo stabilisce il nostro valore? Davvero il mercato? Davvero un turista di passaggio confonde noi per un souvenir?

Con la borsa piena di robaccia e punti interrogativi mi avvio verso la stazione Termini dove c’è il 70 ad attendermi assieme ad una fila di perdigiorno d’ogni specie che mi fanno l’occhiolino e mi sussurrano «”Bela”».

Ecco perché vengo qui: perché non mi sento sola mai tra altri vagabondi che non sanno chi sono ma che un prodotto di lusso lo riconoscerebbero anche sotto una catasta di fake.

Carla Monteforte