Dalle finestre del labirinto

Sento la pioggia da dietro la finestra mentre con la coda dell’occhio spio il mondo là fuori. Fa buio presto, per fortuna. La luce che si spegne lenisce l’angoscia di dover trovare una collocazione in quell’ingranaggio che è l’universo e nel quale mi sento come quel pezzo di Ikea che puntualmente mi resta in mano, pur seguendo alla lettera il libretto di assemblaggio. La notte, invece, è il buco nero dove vanno a finire i detriti delle galassie, tipo me.

(Insieme infatti siamo perfette)

Chi ci capisce più niente delle stagioni che si accatastano come merce tenuta alla rinfusa nel garage di un accumulatore seriale?

Riesco a incasellare la mia vita negli anni, uno per uno, fino all’ultimo di università, dopodiché un asteroide si è abbattuto sulla terra e i lustri si sono aggrovigliati in un unico enorme ammasso informe. Finché non ne è arrivato un secondo ed il caos si è riorganizzato con due nuovi confini: il prima e il dopo.

Non riesco a immaginare nulla di ciò che è accaduto nella storia recente –  crisi economiche, emergenze climatiche, colpi di Stato – che in qualche modo non abbia a che fare con questi due eventi soprannaturali: la malattia e la morte di mio padre.

Mio padre era la mia casa, la finestra da cui mi affacciavo al mondo. Pensate il casino quando i nostri infissi sono stati imbrattati da un branco di squatter dal nome assurdo: placche di beta amiloide.

Disturbo neurocognitivo maggiore o lieve dovuto a malattia di Alzheimer.

Avevo 23 anni quando il mio mondo iniziò ad essere abitato da soli sconosciuti. Una passerella sospesa nel vuoto attraversata da individui senza nome e senza volto.

Quanti ne ho visti passare nel mio soggiorno, nemmeno potreste immaginarlo.

È da allora, probabilmente, che gli stranieri sono diventati i miei esseri umani preferiti.

Dalla mia finestra prima vedevo l’America, il mio avvenire tra viali enormi pieni di luci e credenze zeppe di pacchi di pop corn gigantenschi. Tutto Xxl. Poi l’America iniziò a restringersi ed i viali divennero strettoie. Per vedere il cielo da quelle viuzze dovetti imparare a camminare su tacchi esagerati. Quelli che passi, la terra trema e la gente mormora. Ma chi se ne fotteva?

Ero in purgatorio, sì, ma se sentivo la terra muoversi ancora sotto i miei piedi ed il cielo cadere giù, ero viva. Come mi ripeteva Carole King, stella polare del labirinto da cui eravamo state ingoiate io e le mie sorelle.

Poi smisi persino di sperarci, fu allora che le porte si spalancarono: l’America era ancora dall’altra parte della luna, ma il mio esilio era finito. Ero libera. Di nuovo nel mondo in mezzo a tutti sconosciuti.

Diventai una sconosciuta anche io. Fu cosi che smisi di avere paura, diventando io la straniera. Una di quelle che ti affacci alla finestra e vedi disperdersi nella folla di volti tutti identici.

Ne vedo ancora infiniti dalla mia, e tra quegli infiniti mi vedo di nuovo pure io.

L’inquietudine è il mar in cui m’è dolce naufragar.

Ma è mentre faccio il morto nelle incertezze che un pensiero inquietante disturba la mia traversata. E se fossi finita in un nuovo dedalo?

L’essere umano è una creatura seriale ed in quanto tale tende a ripercorrere gli stessi sentieri all’infinito.

Dispersa in quella miriade di anime senza traiettoria c’è un insegna a luci intermittenti che mi abbaglia nelle tenebre in cui amo galleggiare: «Algoritmo», c’è scritto. Mi domando se sia io adettare le coordinate al mio, o sia lui il mio nuovo Minotauro. Colui che mi tiene per mano e mi conduce in nuovi vicoli ciechi che io chiamo libertà.

Come andrà a finire questa nuova storia non lo so. Per scoprirlo ci vorrebbero pacchi di pop corn xxl.

Carla Monteforte